Val Di Noto e Val Demone:
dal
terremoto al trionfo del Barocco.
La notte del 9
gennaio 1693, una violenta scossa di terremoto colpisce la Sicilia sud e nord
orientale, distruggendo 60 tra città e paesi del Val di Noto e del Val Demone,
due
dei tre distretti amministrativi in cui era divisa l’isola fin dalla
dominazione musulmana (vedi
Cartina). Il terzo vallo, quello di MAZARA, formato
dalla parte occidentale della regione, non viene praticamente interessato
dall’evento. Il sisma, nonostante la sua forza, procura solo danni materiali
e, ovviamente, molta paura. Nella convinzione che simili fenomeni fossero dei
chiari segni dell’ira divina, l’intera popolazione delle aree colpite si
riversa nelle chiese per organizzare atti penitenza, preghiere e processioni.
Due giorni dopo, la domenica mattina dell’ 11 gennaio, la terra torna a
tremare, causando la morte di ben 53.757 persone. Nonostante l’epicentro fosse
localizzato nell’area tra Catania e Siracusa, il terremoto giunge ad
interessare il territorio palermitano ed il tratto meridionale della Calabria.
Ricordiamo che il cataclisma si era abbattuto in una Sicilia provata dalle
drammatiche rivolte degli anni ’40, dalla distruttiva eruzione dell’Etna del
1669, e dal moto indipendentista di Messina del 1674. La violenza del sisma
cancella, di fatto, gran parte del patrimonio architettonico precedente.
Il Problema Della Ricostruzione:
La reazione del governo spagnolo è immediata per evitare che
la popolazione delle aree colpite precipiti nella disperazione e soprattutto
nell’anarchia; appena avuta notizia della catastrofe, infatti, il viceré,
duca di Uzeda, dimostra straordinaria capacità organizzativa. Nomina
immediatamente due giunte speciali, una dedicata ai problemi civili e l’altra
a quelli della numerosa popolazione ecclesiastica. Nel frattempo, il 19 gennaio,
il viceré nomina due vicari generali come suoi luogotenenti nelle aree colpite:
il principe d’Aragona, per il Val di Noto e Giuseppe Lanza, duca di Camastra,
per il Val Demone. A causa, però, di una sopraggiunta infermità del primo,
tutto il peso dell’incarico ricade sul Camastra. Al Lanza vengono affiancati
tre commissari e un gruppo di tecnici. Tra questi, l’ingegnere militare e
colonnello fiammingo Carlos de Grünenbergh ha l’incarico di sovrintendere
alle operazioni di soccorso e di ripristinare le normali condizioni di vita. Il
compito del Camastra e dei suoi collaboratori si rivela estremamente complesso:
è necessario portare i primi soccorsi alle popolazioni colpite, stabilire
misure d’ordine pubblico, sovrintendere alle operazioni di sgombero delle
macerie e alle opere per l’alloggiamento provvisorio dei sopravvissuti. Si
devono inoltre fornire indicazioni generali sulla scelta dei luoghi per la
ricostruzione, e guidare con regole e principi, le opere di pianificazione
urbana mediante l’impostazione degli assi viari, secondo un progetto suggerito
dagli architetti e dagli ingegneri consultati. Peraltro, la maggioranza dei
centri colpiti si fondavano su IMPIANTI
URBANI MEDIEVALI, formati, da
un intricato sistema di strade strette, tortuose, spesso inerpicate su impervi
declivi, ritenuti ormai del tutto inadeguati e irrazionali. Il terremoto
aveva inoltre tragicamente mostrato come tali angusti vicoli, in caso di crollo
degli edifici, bloccavano il passo alle persone e aprivano il sentiero della
morte. La tendenza del governo centrale, però, è quella di mantenere
i siti originari per ridurre i costi della ricostruzione e, soprattutto, evitare
di rompere consolidati equilibri tra i vari centri, in particolare il sistema
difensivo della costa. Solo in pochi casi (ad es. Noto) si opta per una
ricostruzione ex novo.
Peraltro, la ricostruzione si pone come scenario di
confronto, se non addirittura si scontro, tra le diverse realtà sociali.
Infatti, le distruzioni che il terremoto ha causato nella realtà fisica dei
centri abitati, si trasformano in un’occasione per rimisurare il peso
effettivo dei diversi gruppi sociali e la loro capacità di controllo della città
e del suo spazio. Vi sono anche questioni di tipo politico. I centri colpiti si
dividono in DEMANIALI, soggetti direttamente al re e FEUDALI,
facenti cioè parte del patrimonio dell’aristocrazia terriera. L’azione
governativa deve quindi interagire con una realtà politica differenziata e,
soprattutto misurarsi col potere decisionale della nobiltà sulle proprie terre.
Non fu certo una semplice coincidenza che sette dei nove casi di integrale
ricostruzione di un nuovo sito riguardarono centri feudali. Tra questi citiamo:
Avola (dei principi di Terranova) e Grammichele (dei principi di Butera). Per
quest’ultimo centro, celebre grazie alla sua singolare pianta a matrice
esagonale, un ruolo di assoluto protagonismo viene svolto dal suo
fondatore, Carlo Maria Carafa Branciforte, principe di Butera. A lui si rivolge
l’appello di aiuto della popolazione superstite (1394 abitanti su un totale di
2910) e sorprende come, appena tre giorni dopo il sisma, il principe riesca a
far giungere i primi aiuti e, dopo cinque, sia in grado di ordinare il
trasferimento della popolazione nell’area dove sarebbe sorta la nuova città!!
Carlo Carafa giunge sul luogo del disastro il 10 aprile
salutato dalla popolazione come un salvatore. Il 18 aprile il principe pone la
prima pietra con due piastre d’argento recanti la sua effige ed il suo stemma,
avviando così la costruzione del centro. Dei sei borghi a pianta rettangolare
contornanti l’impianto centrale ad esagono, uno doveva essere occupato dal
grande palazzo padronale, segno evidente del suo potere. Il principe Carlo
Carafa muore nel 1695, all’età di 49 anni, lasciando il suo progetto appena
all’inizio. Lo stesso anno, Giuseppe Lanza di Camastra si dimette
dall’incarico di vicario, senza riuscire a risolvere tutti i problemi che
aveva affrontato nel corso del suo mandato. La ricostruzione, in realtà, era
appena iniziata.
Il Dibattito Architettonico:
architetti
e capimastri fra tradizione e rinnovamento
In un panorama architettonico estremamente differenziato
quale quello del Barocco siciliano, si possono individuare due fondamentali
ambiti culturali: uno CONSERVATORE, e
l’altro INNOVATIVO. Il primo si
pone in continuità con la tradizione anteriore al terremoto. Si
tratta di un tradizionalismo basato sulla fedeltà ad una metodologia
progettuale, i cui punti di forza sono l’esaltazione della decorazione e il
riferimento a congegni architettonici della tradizione cinquecentesca, quali
l’impianto basilicale e la facciata concepita come superficie intelaiata da
due ordini di paraste. Alla decorazione è affidato anche il compito di
assorbire la sperimentazione formale ed un cauto ma costante aggiornamento
stilistico. Questo processo, attuato soprattutto attraverso la conoscenza dei
repertori di incisioni, è documentabile per tutta l’età moderna.
Dall’analisi degli ipertrofici apparati decorativi e delle membrature
architettoniche è infatti evidente come, nel corso del tempo, la
tradizione locale abbia costantemente assimilato APPORTI ESTERNI tra i
quali emergono i motivi ornamentali raffaelleschi, i repertori di porte e
finestre di Sebastiano Serlio, le più tarde invenzioni di G.B. Montano e del
tedesco Wendel Dietterlin e a partire dal tardo
Seicento, la produzione incisoria francese, con particolare riferimento a Jean
Berain e Jean Le Pautre. Nei giochi decorativi settecenteschi sono poi
rintracciabili gli influssi della copiosa produzione italiana (Pozzo, De Rossi,
Bibiena, ecc.) e, a partire dalla seconda metà del secolo, quelli delle
incisioni rococò francesi e tedeschi.
La corrente innovatrice, considerata più colta
perché in grado di recepire apporti eteronomi in modo meno superficiale, prende
invece le mosse dall’adozione di spazialità complesse e dalla tendenza a
conferire, al piano di facciata, movimento
(che si evince dall’andamento curvo, concavo o convesso, della superficie
muraria) e tridimensionalità.
Relativamente al nostro itinerario, la corrente innovatrice è rappresentata
dalle chiese di San Sebastiano ad Acireale, di San Pietro a Modica, di San
Giovanni Battista a Ragusa o dal palazzo Nicolaci di Noto. La corrente
innovativa trova invece i suoi riferimenti emblematici nelle chiese di Santa
Chiara a Noto, Sant’Agata e San Giuliano a Catania, nelle facciate delle
cattedrali di Siracusa e di Catania e delle chiese madri di San Giorgio a Ragusa
e a Modica. Dall’analisi di queste opere ci accorgiamo come le due
correnti, in realtà,
non sempre risultino perfettamente distinguibili. I primi anni della
ricostruzione sono dominati dalla tendenza conservatrice all’insegna della
continuità con la tradizione. Ma, negli anni successivi, soprattutto grazie
all’imporsi, a partire dal 1730 circa, degli architetti ROSARIO GAGLIARDI(1690
?-1762), a Noto, e G. B. VACCARINI (1702-1768), a Catania, l’innovazione della
ricerca architettonica subisce un impulso decisivo. E’ interessante notare
come le opposte tendenze professionali trovino diverse collocazioni
professionali. Più aggiornati e aperti a nuove esperienze architettoniche,
furono gli architetti intellettuali, dotati di una salda
formazione teorica che trova nello studio della matematica e della geometria due
dei supporti scientifici fondamentali. Il monopolio della cultura da parte
della chiesa determina in questo ambito la netta prevalenza di architetti
religiosi: tra i personaggi intervenuti nel dopo terremoto, ricordiamo
il gesuita Angelo Italia, autore dei piani urbanistici di Lentini, Noto ed Avola,
ed il frate Michele da Ferla, impegnato nel tracciamento di Grammichele.
Intimamente connessi alla tradizione risultano invece i CAPIMASTRI, d’umile
provenienza, la cui formazione, basata sulla pratica di cantiere e l’attività
artigiana, consente loro di acquisire con il tempo una grande padronanza dei
problemi costruttivi. Legati ancora al sistema corporativo e all’apprendistato
in bottega perpetuato da padre e figlio, i capimastri più capaci, come i
Cultraro di Ragusa o gli Ali di Siracusa, riescono a dar vita ad agguerrite
imprese familiari in grado di assorbire al loro interno tutte le attività
connesse alla realizzazione di un’opera: dal semplice artigianato preposto
agli arredi lignei ed alla doratura degli apparati decorativi, al più
impegnativo lavoro di mastri muratori, stuccatori, e intagliatori di pietra,
fino a giungere, in alcuni casi alla VERA E PROPRIA PROGETTAZIONE
ARCHITETTONICA, entrando così in aperta concorrenza con gli architetti. Rosario
Gagliardi, per esempio, passò da Faber Linguarius,
al seguito del padre falegname, a Magister ed, infine ad architetto ed ingegnere
della città di Noto.
Si definisce committente colui che incarica un appaltatore
(nel nostro caso un capomastro, un artista o un ingegnere) di eseguire
un’opera.
In virtù del MAGGIORASCATO, più di cento baroni controllano
feudi giganteschi, come il principato di Butera, il ducato di Terranova e la
contea di Geraci. La contea di Modica appartiene alla famiglia spagnola
Henriquez la Cabrera, che delega ad un proprio rappresentante, il controllo del
feudo. I feudatari siciliani sono i padroni assoluti del loro territorio.
Addirittura, nel 1621, viene concessa loro anche la facoltà di acquistare,
comprandolo dalla corona, il potere di amministrare nelle proprie terre la
giustizia, sia civile che penale. Accanto alla vecchia e ristretta aristocrazia
feudale cresce una nuova nobilta’ imprenditoriale. Trattasi di uomini
ambiziosi che vogliono a tutti i costi entrare nell’esclusivo novero dei
nobili, per così dire,
tradizionali; uno dei mezzi è quello di rivaleggiare con loro IN
COMMISSIONI EDILIZIE, specie a Palermo, dove tutti sono attirati dalla presenza
della corte. Tra baroni, antichi e recenti e il viceré si stabilisce un tacito
accordo. I primi sono devoti alla Corona per essere garantiti nei loro
privilegi, mentre, il viceré, ravvisa nella vendita di terreni, nelle
concessioni edilizie e nelle esenzioni fiscali, la possibilità di impinguare le
casse reali. I baroni, vecchi e nuovi, appartengono ad una classe culturale
laica e spregiudicata, sommamente colta. Non dobbiamo, dunque, meravigliarci
troppo se costoro si tengono costantemente al corrente delle novità ’
artistiche e letterarie provenienti dal continente e dalle capitali europee. Essi
dividono la loro esistenza tra la gestione autocratica dei feudi e degli
ambienti colti e raffinati dei palazzi di città. Fin dall’inizio del ‘600
si manifesta la tendenza degli aristocratici a lasciare le residenze nei feudi
per insediarsi nella città, dove investono i proventi dei redditi agricoli.
Molti di loro commissionano ad alcuni architetti, la realizzazione nella
capitale (per star vicino alla corte) di fastose dimore barocche che
costituiscono l’ostentazione di uno status consolidato della vecchia
aristocrazia o l’affermazione dell’avvenuta conquista di un rango sociale più
elevato da parte dei nuovi arrivati. Assistiamo quindi, nel corso del
Seicento, alla radicale trasformazione della nobiltà
siciliana: da signori feudali ad aristocratici di corte.
Per completare il quadro delle committenze baronali,
ricordiamo che, mentre le città demaniali beneficiano, in epoca barocca, della
parziale razionalizzazione dell’impianto, nel resto dell’isola esplode un
fenomeno alquanto singolare, la cosiddetta COLONIZZAZIONE
INTERNA. Appoggiandosi sulle norme urbanistiche dell’editto di FILIPPO II
del 1575, i proprietari dei feudi chiedono ed ottengono dal viceré, la LICENTIA
POPULANDI, vale a dire il permesso di fondare nuovi borghi popolati,
in zone agricole urbane. Nel seicento vengono fondati circa cento nuovi
centri, soprattutto nel messinese, nelle Madonie, nel Val di Noto e nel
Trapanese. I
baroni intendono rimettere a coltura i vasti latifondi cerealicoli
dell’interno ma hanno bisogno di ripopolare il territorio per reclutare nuova
manodopera contadina; per convincere i coloni a lasciare i borghi natii
vengono concessi loro alcuni vantaggi come il diritto di far legna o di pascolo.
Sotto il profilo urbanistico, la costruzione ex novo di numerosi centri agricoli
presenta, come caratteristica saliente, una ricerca quasi eccessiva della
geometria dell’impianto. Tra le cause dei tale scelta appare evidente
l’esigenza pratica di facile realizzazione, e di prevenzione nei confronti
di eventuali terremoti. Non può essere trascurato, tuttavia, il ruolo della
cultura umanistica dei nobili e della conoscenza della
trattatistica (=
insieme dei trattati che riguardano una disciplina, appunto l’architettura, o
che appartengono a una determinata epoca) da parte degli esecutori: i
preti- architetti, sia spagnoli che italiani. Gli autori dei piani,
infatti, non sono più gli ingegneri militari ma architetti di provenienza
religiosa, addestrati nei seminari al rigore della cultura matematica,
profondi conoscitori della trattatistica RINASCIMENTALE.
Poiché la lottizzazione avviene su terreno agricolo, il piano urbano viene
disegnato a tavolino, su imitazione delle fortificazioni militari
rinascimentali e in analogia con le contemporanee esperienze urbane che la
cultura spagnola conduceva nelle colonie dell’america latina. Viene,
dunque, privilegiata una trama reticolare con griglia a maglie regolari, intorno
al fulcro della piazza centrale, dove è prevista la costruzione della chiesa
madre e del palazzo baronale.
La Committenza Delle Autorità
Episcopali e Degli Ordini Religiosi
Il terzo fattore che da impulso all’architettura barocca in
Sicilia è il RINNOVAMENTO RELIGIOSO. A seguito delle
posizioni del concilio di Trento, anche il potere religioso doveva
contribuire al rinnovamento edilizio ed artistico. I vescovi siciliani,
spesso cadetti delle più
importanti famiglie baronali, assumono funzione di stimolo per
l’ammodernamento e la ricostruzione degli edifici religiosi. Nelle città sedi
vescovili, le massime autorità religiose sono impegnate, principalmente, nella RESTAURAZIONE
delle grandi cattedrali, tutte di fondazione normanna. In epoca barocca i
vescovi indicono estesi programmi di rifacimenti decorativi. Maggior potere
hanno i vescovi di Catania e Siracusa, in quanto il terremoto del Val di Noto,
distruggendo le navate delle cattedrali di Catania e la facciata di quella di
Siracusa, costringe ad un rifacimento in forme moderne. Il duomo di Siracusa
perde a causa del sisma, la facciata normanna, cui era stato aggiunto un alto
campanile centrale. Nel 1728 il vescovo Tommaso Marini decide di offrire alla
chiesa una nuova facciata che si armonizzasse con i prospetti barocchi dei
palazzi che si affacciavano sulla piazza principale. Viene scelto il progetto di
Andrea Palma. Nel terremoto del 1693 la cattedrale di Catania crolla quasi
completamente. Nella prima fase di ricostruzione post-sismica, l’allora
vescovo di Catania, IGNAZIO RIGGIO, affida il progetto al monaco cappuccino FRA
LIBERATO, al secolo Girolamo Palazzotto da Messina, che lo termina in meno di
tre anni. Fu il vescovo successivo, monsignor PIETRO GALLETTI a decretare che
almeno la facciata dovesse aver un disegno più originale, più consono ai nuovi
tempi, affidando l’incarico all’abate G. B. VACCARINI che stava studiando a
Roma. Ad eccezione di questi esempi, la committenza vescovile, in generale, non
brilla per richieste innovative.
Una solida cultura riformatrice, conseguente ai dettati del
concilio di Trento appartiene non tanto all’autorità vescovile, quanto agli
ordini religiosi. L’incessante
attività missionaria ha bisogno
dell’architettura come strumento di persuasione.
Gli ordini vanno alla ricerca di continui finanziamenti e privilegi, per nuove
costruzioni. La scena cittadina viene travolta da una miriade di chiese e
conventi e dalle comunità religiose,
con un’attività edificatoria
incessante: si aprono piazze e si scelgono per i nuovi edifici, ubicazioni
suggestive, dimensioni esagerate e ricche decorazioni scultoree. Da
sempre strettamente connesso con il potere centrale e cittadino, era il potente
ordine monastico dei BENEDETTINI; in Sicilia, essi occupano monasteri imponenti
che ospitano un numero considerevole di monaci, assurgendo a veri e propri
centri di cultura e di potere. I DOMENICANI, di non minore autorità,
controllano, a Palermo, due conventi S. CITA e S. DOMENICO,
dove prende corpo una vera e propria scuola di architettura. Istruiscono
architetti anche gli ordini di più
recente istituzione come FILIPPINI, TEATINI e GESUITI. Quando questi ultimi si
insediano a Palermo, ottengono da CARLO V il diritto di sedere nel braccio
ecclesiastico del parlamento del regno. A un loro confratello, Giuseppe
Valeriano, spetta la paternità della chiesa gesuita di Marsala, iniziata nel
1592. Lo spirito missionario e l’ingegno educativo impongono di accrescere in
maniera capillare la loro presenza sul territorio, con fondazioni adatte allo
scopo (case e collegi). Ben presto le singole filiazioni sorte a Palermo,
Messina, Trapani e Siracusa, diventano più autonome da Roma e si allevano
architetti occorrenti all’interno delle province. Tra i primi
“fratelli architetti” ricordiamo: NATALE MASUCCIO, TOMMASO BLANDINO, LORENZO
CIPRI e il talentuoso ANGELO ITALIA.
Girovagando
tra le case dell’ordine in tutta europa,
per ottemperare agli obblighi religiosi i gesuiti diventano intermediari
di scambi culturali, sia in campo scientifico che artistico, tanto che spetta
loro il merito di aver importato in Sicilia inedite concezioni spaziali per i
luoghi di culto. Con l’ordine, le opere d’arte diventano sempre più
strettamente funzionali al progetto educativo. Tra i nuovi ordini
sono molto attivi i TEATINI, che, a Messina ospitano per due anni il confratello
GUARINO GUARINI che in Sicilia progetta la facciata della chiesa
dell’ANNUNZIATA (vedi Fig. 5D) a
modello della basilica romana di S. ANDREA della VALLE (vedi fig.
5E). Il
prospetto, inflesso al centro con
un andamento ondulato e una sovrapposizione a tre ordini, progressivamente
digradanti, sia in larghezza che in altezza, sino all’ultima nicchia centrale
destinata alla statua dell’ANNUNZIATA, produce una serie di repliche ed
imitazioni nell’isola. Oltre alle
sedi degli ordini maschili, dopo il Concilio di Trento, assistiamo ad un
notevole incremento di conventi per la clausura femminile, delegati
all’istruzione delle fanciulle aristocratiche. Gran parte delle giovani, una
volta terminata l’educazione sono destinate al convento, per non
intaccare col matrimonio, il patrimonio del primogenito maschile. I
nobili familiari delle monache, dopo averle costrette alla vita monacale, si
assumono l’onere del loro mantenimento ed intervengono finanziariamente per
costruire, restaurare o abbellire le loro prigioni.
Possiamo ravvisare che il rinnovamento delle città siciliane
inizia, verso la fine del ‘500, sotto tre sollecitazioni.
L’azione
dei viceré
L’inurbamento
della nobiltà feudale
Le
esigenze del nuovo fervore religioso a seguito
Un’ autentica concezione barocca nell’architettura si profila solamente più tardi, all’incirca nel 1670. Era stato necessario superare un periodo di transizione durante il quale gli ordini religiosi, avevano avuto il tempo di educare una moderna generazione di professionisti, formata sulle novità culturali e formali di Roma barocca. L’architettura siciliana della prima metà del secolo risulta ancora saldamente legata alle caratteristiche strutturali del tardo manierismo. I palazzi esibiscono una fantasia straordinaria nelle mensole figurate dei balconi. Le chiese sembrano progettate per ospitare un’abbondante decorazione di tipo artigianale. L’intaglio elaborato e copioso della pietra, o la sua imitazione in stucco, dimostra un’esuberante creatività e una fantasia decorativa nella definizione dei dettagli. Maestranze specializzate, messinesi e palermitane, sono chiamate in tutta l’isola per ricoprire le pareti di chiese e cappelle, in maniera ossessiva, con la raffinata tecnica di lavorazione a MARMI MISCHI (intarsio di marmi diversi) o FRAMMISCHI (combinazione di rilievi di marmo bianco e sfondi ad intarsio colorato). L’originalità del barocco siciliano e’ dunque la felice sintesi di questo substrato tecnico con il linguaggio architettonico del barocco del continente. Gli architetti della prima generazione che lavorano a Messina e Palermo, cominciando da Natale Masuccio e Paolo Amato, tutti di formazione tardo manierista, si distinguono per la maestria con cui sanno organizzare il lavoro di artigiani, stuccatori, marmorari, intagliatori. Nei primi tempi dopo il terremoto del 1693, a Catania, la carenza di architetti dalla forte capacità progettuale determina la prevalenza di maestranze locali o provenienti da Messina, Acireale e Palermo, specializzate nella lavorazione della pietra. La singolarità della città sta nella sua omogeneità decorativa, generata dalla ricostruzione simultanea di portali, cantonali, mensole e cornicioni. Tutti elementi lavorati ad intaglio, con putti, cascate di fiori, tralci e ghirlande, nella tenera pietra calcarea che forma un originale contrasto con il nero della pietra lavica, usata come materiale da costruzione. Anche quando i committenti si rendono conto che le nuove esigenze richiedono architetti aggiornati sulle novità romane, questa cultura figurativa non viene perduta. Ne troviamo infatti traccia nell’architettura civile del Settecento, nella Sicilia sud-orientale: sono veri e propri capolavori di scultura le mensole figurate dei balconi di palazzo Nicolaci di Villadorata a Noto. La bravura artigianale e la fantasia inventiva sono però messe a profitto dagli architetti più propriamente barocchi, che sanno armonizzarle con forme più innovative, fatte di movimento delle masse e non di pura decorazione superficiale.
A partire dal 1670, una nuova generazione di moderni
professionisti, forti delle loro vaste conoscenze culturali, sa ricercare le
soluzioni più idonee a conciliare la nuova moda, il barocco, con le
aspettative del gusto locale. Gli architetti-sacerdoti, quali Giacomo
Amato, Angelo Italia, Giovan Battista Vaccarini, Rosario Gagliardi e Giovanni
Biagio Amico, ricavano nuove concezioni spaziali dai testi, dalle incisioni o
dalla conoscenza diretta del barocco romano. Se va riconosciuto alle maestranze
messinesi ed a acesi
il merito di aver assicurato la rapida ricostruzione delle aree del Val
di Noto, distrutte dal terremoto, spetta a Vaccarini a Catania, e a Gagliardi a
Noto e a Ragusa, il pregio di aver saputo utilizzare, con migliori risultati,
artigiani già all’opera nella ricostruzione, aggiornando le loro capacità,
secondo disegni e schemi operativi inediti. Anche per quanto riguarda l’uso
dei materiali da costruzione locali, i moderni professionisti sanno cercare
soluzioni originali ed economiche: Vaccarini sfrutta il nero del basalto
lavico per Catania. Gagliardi ottiene il massimo rendimento dalla
docilita’ dell’intaglio della pietra dorata a noto (ricavata
da latomie ubicate nei pressi di Palazzolo Acreide), dalla consistenza della pietra
modicana a Modica e dalla pietra pece nera che si estrae a
Ragusa; quest’ ultima, viene usata, con intenti cromatici, all’interno di s.
Giorgio, a Ragusa Ibla. Osservando più da vicino le realizzazioni di
questi artisti, addentrandoci nei dettagli figurativi, ci troviamo spesso di
fronte a vere e proprie citazioni del repertorio proveniente dal barocco
romano, di derivazione berniniana e borrominiana.
Il canale di trasmissione del barocco romano in Sicilia è
l’appartenenza di quasi tutti gli architetti siciliani al ceto ecclesiastico.
Il desiderio degli ordini di formarsi i loro intellettuali sul posto, architetti
compresi, nasce non solo da ragioni economiche e pratiche, quanto piuttosto
dall’esigenza di maggiore corrispondenza al gusto locale. E’ negli
ambienti culturali religiosi, quindi, che avviene una nuova forma di
preparazione professionale che unisce coloro che emergono come i più
rivoluzionari nel panorama artistico isolano, a partire dal 1670. Il
gesuita Angelo Italia, il camilliano- crocifero Giacomo Amato e il domenicano
Tommaso Maria Napoli, dominano nei cantieri palermitani
religiosi e laici, non solo per le capacità progettuali,
ma per l’abilità nel saper organizzare il lavoro di pittori e
stuccatori. Agli architetti succitati dobbiamo aggiungere due sacerdoti,
Giovanni Battista Vaccarini, l’autodidatta Giovanni Biagio Amico, parroco a
Trapani e, un laico, Rosario Gagliardi. In Sicilia è la formazione
religiosa a fornire gli strumenti scientifici di base, attraverso gli studi di
matematica e prospettiva a rendere familiari i testi fondamentali per la
professione, come la trattatistica classica, composta da Vignola, Palladio,
Serlio, Vitruvio e Leon Battista
Alberti. Terminati gli studi nei conventi, gli architetti siciliani si
appropriano rapidamente delle novità del lessico del barocco romano ed europeo.
Per la maggior parte di essi, ciò avviene per esperienza diretta, tramite un
apprendistato fuori dalla Sicilia o per viaggi tra le sedi dell’ordine di
appartenenza; per altri la conoscenza avviene in maniera filtrata, attraverso le
esperienze dei confratelli e dalla circolazione delle innumerevoli incisioni e
stampe che girano in tutta Europa. Si forma in tal modo, una nuova
classe di artisti al servizio non solo dell’ordine di appartenenza, o delle
autorità religiose, ma anche delle più facoltose famiglie aristocratiche.
Tutti si spostano nell’isola, e in tal modo divulgano rapidamente, nella
pratica del cantiere, anche nei piccoli centri, la lezione del barocco.
Domenicani, crociferi, teatini, gesuiti, pur provenendo da ambiti provinciali
differenti, mostrano di possedere comuni conoscenze di base, dal quale traggono
le soluzioni operative e formali più affini al loro modo di vedere
l’architettura e maggiormente rispondenti alle richieste dell’esigente
committenza. Una delle caratteristiche comuni agli architetti siciliani, quindi,
è il loro aggiornamento culturale, che determina la possibilità di
rintracciare nelle loro opere un riferimento a planimetrie, facciate o dettagli
provenienti dall’ambito romano. Ciò però non inficia l’originalità delle
loro creazioni. E’ altrettanto vero che un apprendistato romano costituiva la
miglior credenziale per passare dalla qualifica di CAPUT MAGISTER al rango di
architetto civile. A Roma, coloro che non hanno alle spalle un ordine religioso
vengono affidati a parenti e conoscenti, facenti parte della numerosa comunità
di artisti siciliani, che gravita intorno alle chiese di S. Maria di Ogiditria e
di S. Idelfonso. Coloro che vengono inviati dal Governo Vicereale si appoggiano
alla famiglia COLONNA rappresentante a Roma della corona spagnola. Il clero
siciliano, invece, negli anni del pontificato di Alessandro VIII e
successivamente, poteva contare sulla protezione del cardinal OTTOBONI. Nel
raffinato circolo culturale Ottoboni, gli architetti apprendono il gusto
scenografico tardo barocco, richiesto dal cardinale per le sue rappresentazioni
teatrali. Tra gli architetti che traggono maggiore profitto da questo ambiente,
ricordiamo VACCARINI, JUVARRA e il PASSALACQUA. Tutti questi artisti, trovano
lavoro nei numerosi cantieri della capitale, coltivando il loro aggiornamento
culturale. Con il passare degli anni, pochi siciliani rimangono a Roma. La
maggior parte torna in TRINACRIA, portandosi un bagaglio di idee innovative e di
disegni da sfruttare nella futura professione. Considerati i punti di
contatto con il barocco romano siamo ora in grado di comprendere l’apporto
offerto da questi artisti, all’architettura siciliana, dopo il ritorno in
patria. Nel 1685 GIACOMO AMATO è di rientro a Palermo,dopo aver eseguito
rilievi dei più importanti edifici berniniani e borrominiani. Sette volumi, di
disegni autografi o definitivi, schizzi, appunti, per realizzazioni stabili. Amato
introduce in Sicilia il motivo del prospetto a colonne libere, vale a dire
totalmente distanziate dalla parete (vedi foto N°
5F) ovvero in
aggetto disuguale rispetto al piano della facciata. Si afferma, in tal modo, per
la prima volta, in Sicilia, la concezione della facciata non più come
superficie ma come organismo spaziale indipendente dal corpo della chiesa, che
serve da connessione tra l’interno e lo spazio pubblico della strada.
L’uso della colonna libera (con conseguente accelerazione plastica della
facciata) giunge rapidamente anche nella Sicilia orientale, dopo il terremoto,
per imporre i grandiosi prospetti delle cattedrali di Noto, di recente
attribuita ad Angelo Italia, e di Siracusa, del palermitano Andrea Palma. Una
volta entrato nel lessico comune, accettato dalla committenza, questo nuovo
trattamento delle facciate, organizzate come strutture autonome, e’ in grado
di combinarsi, in maniera pregevole, con una tradizione locale, spagnoleggiante
, quella della sovrapposizione degradante degli ordini e livelli, che si
concludono con una loggia trifora, con funzione di torre campanaria, per trovare
la sua esaltazione nelle opere di Rosario Gagliardi. I suggerimenti di
Giacomo Amato e di Angelo Italia giungono anche nella Sicilia occidentale, a
cominciare da Trapani, ad opera di un singolare parroco architetto -
trattatista, Giovanni Biagio Amico.
E’ soprattutto nel campo della definizione articolata delle planimentrie,
che l’Italia dimostra di essere il personaggio più significativo, avendo
dimostrato le possibilità dell’uso della pianta centrale, composta
dall’aggregazione di più cellule spaziali. Quando Italia muore, nel 1700, si
chiude una prima stagione del Barocco. Se l’Italia è il principale artefice
del rinnovamento del linguaggio architettonico nel Seicento, il secolo
successivo sarà aperto dall’arrivo a Catania, nel 1729, a soli 27 anni, del
palermitano, Giovanni Battista Vaccarini, formatosi a Roma nel solco della
tradizione berminiana. Spetta a lui il merito di aver inaugurato , in
Sicilia, la PIANTA LIBERA, che con le tipologie tradizionali, longitudinali o
centrali. L’uso di forme complesse, di perimetri interni sinuosi,
l’andamento inflesso delle facciate, la disposizione trasversale delle basi
delle colonne, la trasformazione
delle finestre sovrapporta in motivi ovali con funzione decorativa,
la policromia dei materiali, sono caratteristiche vaccariniane
che diventano patrimonio comune e si diffondono in tutta la Sicilia
Orientale. In questo clima
culturale rinnovato giunge nell’isola, nel 1765, Stefano Ittar,
proveniente da Roma. Di origine polacca, è informato delle esperienze barocche
dell’Europa centrale. Gli
architetti mitteleuropei avevano
estremizzato le possibilità di movimentare le masse murarie. La
facciata della Collegiata di Catania (vedi fig.
5G)
costituisce per l’articolazione plastica della struttura un elemento
originale nello scenario isolato.
Tutte le novità importate e rivisitate da questi architetti,
l’autonomia della facciata, l’articolazione mossa delle pareti, la
monumentalità vaccariana, trovano,
nella stagione ultima del barocco Siciliano, ovvero nel tardo barocco, il loro
cantore in un architetto laico, di formazione artigianale, e probabilmente mai
uscito dal suo territorio, come Rosario Gagliardi.
Le sue soluzioni ingegnose, ormai non hanno più nessuna
parentela con i profili romani. I suoi prospetti curvilinei sono accompagnati
dal tema quasi ossessivo della colonna libera, eccessiva nelle sue
dimensioni e disposta su più
livelli degradanti, Le scelte di Gagliardi diverranno a loro volta prototipi da
imitare per gli ultimi architetti
locali della Sicilia orientale, tra tutti, gli allievi Vincenzo Sinatra e Paolo
Labisi.
L’aspetto più interessante del barocco della Sicilia
sud-orientale è lo strettissimo rapporto tra le costruzioni principali della
città e il tracciato urbano che dà vita ad una progettazione integrata. Se si
osserva, per esempio la pianta di Noto (vedi piantina), ricostruita in altro
sito dopo il 1693, è facile accorgersi della perfetta regolarità dei tracciati
viari. Un reticolo di isolati scanditi da strade che si intersecano ad un angolo
retto, mutuato dalla trama
Ortogonale Ippodamea, che affonda le radici storiche nell’antichità greco –
romana. La pianta della città barocca per antonomasia segue dunque i dettagli
classici stabiliti da Ippodamo di Mileto e si sviluppa ortogonalmente intorno ad
un decumano (via che attraversa la città da oriente ad occidente, per essere
sempre illuminata dal sole) maggiore, con cardini perpendicolari che formano
insule intersecate da stretti passaggi per lo scolo delle acque. Ne consegue un
impianto urbanistico semplice, lineare, con strade ampie, ( la loro lunghezza,
viene stabilita in 8 canne Siciliane, circa 16 metri e mezzo, per le maggiori e
6/4 canne per le minori). Così come per l’impianto viario, sempre in base a
un’ottica antisismica, si stabilisce la creazione di un certo numero di ampie
piazze, in parte condizionata dalla localizzazione delle chiese e dei conventi,
intese come spazi di fuga e ricovero dei cittadini.
La stagione
tardo barocca di Noto, Modica, Ragusa ibla, Scicli e degli altri centri vicini,
si inserisce, di conseguenza, ai vertici dell’elaborazione e della
progettazione Europea, in un momento particolarmente ricco di spinte, di
ricerche, di commistioni fra architettura ed urbanistica, fra scenografie e
prospettiva, fra studi sociali e immagine intellettuale. Dunque, i nuovi
professionisti non sono solamente architetti, ma anche, urbanisti militanti.
Gagliardi e Labisi, per esempio, quando firmano i progetti, non solo ricevono gli incarichi di architetti ma anche di urbanisti municipali,
col compito di sovrintendere alle infrastrutture e all’arredo urbano. Le
esigenze locali, unite alle competenze nel campo urbanistico, generano una qualità specifica
del barocco Siciliano: l’attitudine a non limitarsi alla
progettazione del singolo edificio, e la capacità di inserirlo in una
composizione scenografica, che diventa parte integrante della città.