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1. GIOVANNI
VERGA
LA VITA
Giovanni Verga nacque a Catania nel 1840: discendeva da una
famiglia di persone benestanti, colte e istruite (il padre era farmacista e
possidente). Nella famiglia prevalevano le idee liberali: il nonno paterno era
stato un capo della Carboneria. Verga assorbì le idee della famiglia: lo
spirito di opposizione ai Borbone, il distacco dalla Chiesa e il patriottismo
romantico. A sedici anni già aveva scritto il romanzo Amore e patria, ispirato alla rivoluzione americana: esso non fu
mai pubblicato. A diciotto anni, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza
presso l'Università di Catania, ma presto abbandonò gli studi per dedicarsi
alla letteratura. Intanto, dopo la spedizione dei Mille, la Sicilia entrava a
far parte del Regno d'Italia: Verga appoggiò con entusiasmo l'unificazione, e
fra i venti e i ventiquattro anni fece parte della Guardia Nazionale, un gruppo
di volontari voluto dal governo italiano. L'anno successivo incominciò a vivere
facendo la spola fra Catania e Firenze, la città allora più importante per la
cultura della giovane nazione. A Firenze conobbe il conterraneo Luigi Capuana,
insieme al quale il Verga sarebbe diventato il maggiore teorico del Verismo, la
corrente letteraria che negli ultimi decenni del XX secolo avrebbe soppiantato
la tendenza romantica.
Poco più che trentenne si trasferì a Milano, dove collaborò a
riviste letterarie e scrisse romanzi di gusto romantico che ebbero un discreto
successo. Dal 1874, però, dopo aver pubblicato la novella Nedda, ambientata nel
mondo dei contadini poveri della Sicilia, Verga iniziò a scrivere in stile
verista. Per oltre vent'anni egli continuò a produrre e a pubblicare in questo
nuovo stile, lavorando anche per il teatro. Nel 1895, deluso per lo scarso
successo dei suoi romanzi, Verga decise di tornare in Sicilia, dove visse fino
alla morte, avvenuta dopo gli ottant'anni,
nel 1922, quando già era terminata la prima guerra mondiale e il
fascismo era andato al potere. Nell'ultima fase della vita, l'autore si staccò
progressivamente dalla letteratura e dovette affrontare anche difficoltà
economiche finché nel 1920, a ottant'anni, fu nominato senatore per meriti
culturali e il suo ruolo di grande scrittore fu, seppur tardivamente,
riconosciuto.
LE OPERE
I primi romanzi del Verga, scritti attorno ai vent'anni e ispirati
all'epopea risorgimentale, furono pubblicati a spese del padre. Solo quando
ebbe preso contatto con gli ambienti letterari fiorentini, lautore cominciò a
essere conosciuto per i suoi scritti; pubblicò poi a Milano, poco più che
trentenne, il primo romanzo di successo: Storia
di una capinera.
Quest'opera, come le altre degli anni immediatamente successivi (Eva, Tigre
reale, Eros...) era di gusto
tipicamente romantico: narrava infatti la storia di una giovane dal cuore
appassionato, rinchiusa in convento contro la sua volontà che, infine, si
lasciava morire come una capinera in gabbia. La trama, lo stile e perfino il
genere (si tratta di un romanzo epistolare) ricordavano da vicino i modelli
della narrativa romantica (per esempio, Le
ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo).
La lunga novella Nedda,
composta nel 1874, rappresenta una
svolta nella narrativa del Verga: protagonista è infatti una ragazza povera e
la vicenda è ambientata in Sicilia. Il racconto si può già definire di stile
verista, soprattutto per il tono apparentemente impersonale con cui la vicenda
viene narrata.
Questa la trama.
Nedda
è una povera contadina, orfana e sola al mondo, che vaga di fattoria in
fattoria cercando lavoro. La sostiene l'amore per il contadino Janu: ma egli,
costretto a lavorare nonostante la febbre, cade da un albero e muore. A Nedda
rimane solo la figlia avuta da Janu: anch'ella però, vittima di un'esistenza
condotta fra gli stenti, si ammala e muore. Nedda resta sola al mondo, nella
miseria e nel dolore.
Dopo la pubblicazione di Nedda, Verga tratterà spesso temi analoghi e
scriverà sempre in uno stile realistico e antiromantico, pubblicando all'età di
quarant'anni, col titolo Vita dei campi,
una prima serie di novelle veriste; una seconda raccolta verrà pubblicata col
titolo Novelle rusticane;
successivamente, lo scrittore ne comporrà varie altre, di ambientazione
siciliana ma anche, talvolta, settentrionale.
Il capolavoro del Verga è il romanzo I Malavoglia, pubblicato nel 1881, quando l'autore era poco più che
quarantenne. Il successo dell'opera fu modesto (lo scrittore parlò di fiasco
editoriale).
Questa la trama.
I
Toscano, pescatori di Aci Trezza (paese
siciliano presso Catania), soprannominati "Malavoglia", possiedono una casa con un nespolo, cui sono
particolarmente affezionati, e una barca, la Provvidenza. Nel tentativo di
migliorare la situazione economica della famiglia, il vecchio padron
'Ntoni, padre di Bastianazzo (il quale
ha cinque figli), compra un carico di (i lupini da rivendere: ma la barca con i
legumi fa naufragio e Bastianazzo muore. Inizia così una serie di sventure che
colpiscono i Malavoglia: per pagare il debito bisogna vendere la casa; Luca,
secondogenito di Bastianazzo, muore nella battaglia di Lissa e la vedova
Maruzza è vittima del colera. Successivamente 'Ntoni, il figlio maggiore, che
cerca disperatamente di sottrarsi alla miseria, si dà al contrabbando, ferisce
la guardia doganale don Michele e finisce in prigione; Lia, compromessa dalle
voci che circolano su una sua relazione con don Michele, fugge di casa (si saprà poi che è diventata
una prostituta). Mena, la sorella maggiore, a causa della povertà e della
cattiva fama di Lia, rinuncia a sposarsi con compare Alfio Mosca. Dopo la morte
di padron 'Ntoni, è Alessi, il più giovane dei fratelli, a riscattare la casa
del nespolo; sposatosi con Nunziata, diventa capofamiglia, ospita la sorella
Mena e continua il mestiere del nonno. Il romanzo si conclude con la visita di
'Ntoni alla casa di Alessi. 'Ntoni si rende conto che, dopo ciò che è accaduto,
se ne deve andare lontano: e con la sua partenza e il suo addio si conclude la
narrazione.
Il messaggio fondamentale del romanzo, che presenta nel modo più
vero e obbiettivo possibile le condizioni degli umili, è più facilmente
comprensibile se leggiamo un importante passaggio della novella Fantasticheria (che appartiene alla
raccolta Vita dei campi). In essa
l'io narrante, che si identifica nel Verga stesso, polemizza con una dama
dell'alta società in compagnia della quale l'autore era passato in treno da Aci
Trezza, e presenta con simpatia la storia dei personaggi che ritroveremo ne I
Malavoglia. Riferendosi a quella gente che vive abbarbicata al luogo e alla
classe sociale in cui è nata, lo scrittore le paragona alle ostriche:
Proprio
l'ideale dell'ostrica! (...) Per altro il tenace attaccamento di quella povera
gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava
principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita
di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere,
sulla casa e sui sassi che la circondano, mi sembrano (...) cose serissime e
rispettabilissime anch'esse. Sembrami che le irrequietudini del pensiero
vagabondo s'addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti
miti, semplici, che ssi succedono calmi e inalterati di generazione in
generazione.
Il Verga esprime in questo passo le sue idee fondamentali,
sottintese anche alla trama del romanzo:
a. Il valore
più importante della vita è la religione della famiglia.
b. Le
persone che devono essere maggiormente ammirate sono quelle che, appartenendo
soprattutto alle classi povere, si rassegnano ad una vita di stenti e tirano
avanti, per il bene della famiglia,
cercando di creare una nuovo nucleo che raccolga la tradizione di quello in cui
sono vissuti, e tutto sacrificando a questo scopo. Il personaggio che meglio
incarna questo ideale, nel romanzo, è Alessi.
c.
Proprio come le ostriche attaccate allo scoglio, non bisogna lasciare il proprio ambiente, perché in tal modo si
va incontro a più probabili sventure. Le disgrazie dei Malavoglia iniziano dal
tentativo di cambiare mestiere, commerciando lupini; i due figli di Bastianazzo
che si perdono sono 'Ntoni e Lia, i quali non si rassegnano alla loro
condizione. Chi resiste è invece Alessi, che riscatta la casa del nespolo e
prosegue il lavoro del nonno.
Questa convinzione del Verga si ritrova anche nella sua opera
seconda per importanza, il romanzo Mastro
don Gesualdo: è anzi sottintesa a tutto il ciclo di romanzi che l'autore
aveva progettato di scrivere (se ripensiamo alla biografia del Verga, e al suo
ritorno in Sicilia dopo gli anni trascorsi nel continente, questa conclusione
sembra nascere anche dalle esperienze personali dello scrittore).
IL CICLO DEI VINTI
Nelle intenzioni del Verga, I
Malavoglia avrebbero dovuto far parte di una serie di romanzi che dovevano
costituire un Ciclo dei vinti,
dedicato ai perdenti di ogni classe sociale. Infatti egli scrive nella
prefazione a I Malavoglia:
Il
cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per
raggiungere la conquista del progresso è grandioso nel suo risultato, visto
nell'insieme, da lontano. (...) Il risultato umanitario copre quanto c'è di
meschino negli interessi particolari che lo producono. (...)
L'attività umana che conduce al progresso viene poi paragonata a
una grande corrente; il Verga aggiunge:
Solo
l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il
diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si
lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto, ai vinti che levano le
braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti,
i vincitori d'oggi affrettati anch'essi, avidi anch'essi di arrivare, e che
saranno sorpassati domani.
I
Malavoglia, Mastro don Gesualdo, la Duchessa di Leyra, l'Onorevole Scipioni,
l'Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva,
dopo averli travolti e annegati (...)
Quelli citati nella prefazione sono i protagonisti dei romanzi che
avrebbero dovuto costituire il ciclo: scegliendoli fra appartenenti a diversi
ambienti e classi sociali, il Verga intendeva dimostrare, in sottintesa
polemica con le teorie socialiste, che i perdenti si ritrovano ovunque e non
solo in alcune classi sociali.
Oltre a I Malavoglia,
però, solo Mastro don Gesualdo venne
ultimato. Questa, in sintesi, la trama:
Il
manovale siciliano "mastro" Gesualdo Motta, con duro lavoro e sacrifici, si arricchisce. Egli sogna di
diventare "don", entrando nella classe sociale dei nobili: sposa
perciò Bianca Trao, di famiglia
aristocratica ma impoverita. La moglie, però, non lo ama e ha sposato Gesualdo
solo perché era già incinta per opera del cugino. Nel palazzo dei Trao, mastro
don Gesualdo è disprezzato e odiato da tutti, anche dalla figlia, per le sue
umili origini. A conclusione del romanzo, egli muore solo come un cane,
schernito e deriso perfino dai servitori del palazzo.
IL VERISMO
Il Verismo è il movimento letterario italiano, fondato da Verga e Capuana, che si ispirava
al Naturalismo francese del romanziere Zola (a sua volta, tale stile si ricollegava al Realismo). I narratori
appartenenti a queste tendenze volevano descrivere la realtà sociale vera,
cioè così com'era, abbandonando i personaggi sentimentali e passionali delle
opere romantiche per raccontare invece le storie delle figure minori della vita
di tutti i giorni, appartenenti soprattutto alle classi sociali più povere.
In Francia, gli scrittori naturalisti simpatizzarono per le idee
socialiste: non così i veristi italiani.
Il Verga in particolare, quando presentava le condizioni dei
diseredati (soprattutto della parte più povera dell'Italia: il Meridione) non
lo faceva per sollecitare una riforma o una rivoluzione politica nella quale
egli, che era conservatore, non credeva. Le idee che lo scrittore intendeva
comunicare erano quelle cui abbiamo accennato presentando le sue opere.
Va sottolineato che, a differenza del Manzoni, che chiarisce il
proprio pensiero con frequenti interventi e commenti nel corso della narrazione
(tipico è, a questo proposito, il
sugo di tutta la storia nel finale dei Promessi
Sposi), il Verga e i narratori veristi si propongono di narrare
fotografando la realtà, raccontando in modo asciutto, senza esprimere con
riflessioni e commenti il pensiero del narratore su ciò che sta accadendo. Nei
romanzi verghiani la partecipazione emotiva, la pietà verso quelle vittime del fiume del progresso le cui vicende
sono narrate, è sottintesa, ma non viene mai espressa direttamente dalla voce
del narratore esterno.
Questa è la maggiore novità introdotta dal Verga nei racconti e
nei romanzi della letteratura italiana. L'altra riguarda il linguaggio, semplice,
quasi parlato, vicino a quello della gente comune: un misto fra il dialetto
locale e il toscano.
L'EPOCA E IL PENSIERO
La vita del Verga copre un lungo arco di tempo, nel corso del
quale si verificanoi avvenimenti storici importantissimi come le lotte del
Risorgimento, la realizzazione dell'Unità d'Italia, il poderoso sviluppo
industriale di fine Ottocento nell'Italia settentrionale (che non ha però
coinvolto il Meridione, la cui povertà è testimoniata proprio dalle narrazioni
veriste), il diffondersi delle idee socialiste e, negli ultimi anni d'esistenza
dello scrittore, la prima guerra mondiale e l'ascesa del Fascismo.
Nel pensiero e nelle opere del Verga (tranne che nei primi romanzi
storici di gusto patriottico e romantico) questi grandi eventi non lasciano
però tracce significative. Ciò perché egli non ritiene che la politica possa
cambiare il destino dell'uomo (egli si dichiarava conservatore, ma non dava
importanza agli scontri sociali e alle aspre polemiche partitiche che
appassionavano l'Italia di quei decenni). Come scrittore osserva, con pietà e
partecipazione, la sorte dei vinti, a qualunque classe sociale appartengano (e
se si sofferma soprattutto sui poveri del Meridione è perché fra essi può
incontrare più facilmente gli sventurati e i perdenti).
Una corrente di pensiero ha sicuramente pesato nella formazione
del pensiero del Verga e, in generale, nella nascita del Verismo e del
Naturalismo francese: il Positivismo. La diffusione di questa teoria
filosofica, che deve il nome al francese Comte, ricevette grande impulso
dall'entusiasmo verso la scienza suscitato dalla pubblicazione, nel 1859, del
libro L'origine della specie di
Charles Darwin, che espose la rivoluzionaria teoria evoluzionistica. I principi
del Positivismo si possono così riassumere:
a. In
polemica con il Romanticismo, il Positivismo ritiene che la verità e le
conoscenze positive siano raggiungibili dagli uomini, ma esclusivamente
attraverso i razionalel metodo scientifico sperimentale e l'attività degli
scienziati.
b. La
storia umana è vista come una corrente che avanza verso il progresso, sotto la
spinta degli interessi materiali degli uomini: il motore di questo progresso è
lo sviluppo della scienza e della tecnica.
Tale concezione è direttamente ripresa dal Verga quando, nella
prefazione a I Malavoglia, egli parla
della fiumana del progresso: ciò che contraddistingue lo scrittore, però, è un
pessimismo di fondo, che lo spinge a identificarsi con i vinti, con i deboli
gettati al margine dal tumultuoso fluire di questa fiumana, e a interessarsi
soprattutto a loro, nella sua attività di romanziere. Egli ritiene pericoloso
staccarsi dallo scoglio per gettarsi nella fiumana, e al mondo lanciato verso
il successo economico ottenuto a ogni costo (anche facendosi contrabbandieri,
come 'Ntoni) contrappone una vita di dura lotta per l'esistenza, spesa nel
luogo e nell'ambiente dove si è nati. Il valore della famiglia è, negli scritti
del Verga, il massimo valore: è questo il senso dell' ideale dell'ostrica.
Direttamente influenzato dal Positivismo è il modo di raccontare
dei Naturalisti e dei Veristi. L'assenza di commenti del narratore deriva
infatti, come alcuni autori di questa corrente hanno esplicitamente dichiarato,
da una volontà di trasformare lo scrittore in un osservatore esterno imparziale
che presenta la società umana così come uno scienziato descrive, in modo
distaccato, la vita animale. Va detto però che la tendenza a mostrare il lato
bestiale dell'essere umano si nota soprattutto nei romanzi del francese Zola;
in Verga prevale invece, benché espresso indirettamente, un tono di pietà verso
i vinti di cui l'osservatore, travolto
anch'esso dalla fiumana (così egli si definisce nella prefazione a I Malavoglia), si sente parte.
I TESTI
Lanalisi dei testi del Verga può essere avviata prendendo in
considerazione l'inizio e la conclusione di una delle sue più celebri e tipiche
novelle, La roba, tratta dalla
raccolta Novelle rusticane. Ne
abbiamo evidenziato le principali caratteristiche e, fra parentesi, abbiamo
inserito sinonimi dei termini o delle espressioni meno facilmente
comprensibili.
La
roba
Il
viandante che andava lungo il Biviere di Lentini
(località del catanese, come tutte quelle elencate successivamente) e le stoppie riarse (erbe bruciate) della Piana di Catania, e gli aranci sempre
verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di
Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga
strada polverosa, sotto il cielo fosco (oscurato) dal caldo, nell'ora in cui i campanelli della lettiga (mezzo di
trasporto) suonano tristamente
nell'immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il
lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal
sonno della malaria (dalla sonnolenza provocata dalla malaria): - Qui di chi è?- sentiva rispondersi: -Di
Mazzarò. - E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi
magazzini che sembrano chiese e le galline a stormi accoccolate all'ombra del
pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava:
- E qui? - Di Mazzarò.- E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli
occhi, e vi scuoteva all'improvviso l'abbaiare di un cane, passando per una
vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come
gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo,
accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva il capo per vedere
chi fosse: - Di Mazzarò. (...) Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di
Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli
uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il
sibilo dell'assiolo (uccello notturno) nel
bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra,
e che gli si camminasse sulla pancia. Invece egli era un omiciattolo, diceva il
lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco (un soldo), a vederlo; e di grasso non aveva altro che
la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro
che due soldi di pane; e sì ch'era ricco come un maiale; ma aveva la testa
ch'era un brillante, quell'uomo.
Infatti,
colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima
veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll'acqua,
col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti
si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli
davano dell'eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano (in
segno di rispetto).
La novella prosegue descrivendo l'estrema parsimonia di Mazzarò
(egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, non aveva il vizio del gioco né quello delle donne.
Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre (la quale gli era costata anche dodici tarì,
quando aveva dovuto farla portare al camposanto) e racconta poi il modo con
cui, affaticandosi senza tregua, era riuscito a diventare padrone di tutta
quella roba, per la quale continuava
a risparmiare al punto da mangiare solo pane e cipolla. Ed ecco la conclusione
della novella.
Di
una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva
lasciarla là dov'era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi
logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne
vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello (recipiente
di vimini), col mento nelle mani, a
guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che
ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna
come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il
peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per
invidia, e borbottava: -Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha
niente!
Sicché
quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all'anima
(poiché stava per morire), uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e
andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e
strillava: - Roba mia, vientene con me!
Queste le principali considerazioni che emergono dalla lettura del
testo.
a. La roba è
indubbiamente una novella verista: sia per il tema trattato, sia per le
caratteristiche del narratore. La voce che racconta la storia di Mazzarò,
infatti, evita assolutamente di dare giudizi sul personaggio e di esprimere
propri punti di vista: ciò che sappiamo, ci viene detto principalmente da
personaggi (il viandante, il lettighiere), da Mazzarò stesso e dalle sue
azioni.
b. A
differenza di ciò che accade nella narrativa romantica, i sentimenti e i
pensieri del personaggio non sono riferiti o raccontati dal narratore, ma
devono essere intuiti dal lettore attraverso la presentazione fatta
dall'esterno: da ciò che il progonista dice, dalle azioni che compie, da ciò
che mangia, dal modo in cui muore. La focalizzazione del punto di vista cerca,
cioè, di essere il più possibile impersonale. Spesso, però, viene abbandonato
questo modo di narrare per passare a una focalizzazione interna, in quanto il
punto di vista che viene espresso è ora quello del viandante o del lettighiere
(nella parte iniziale del testo), ora quello di Mazzarò (nel finale: Di una
sola cosa gli doleva...). In ogni caso, il narratore si sforza di evitare
interventi: invano cercheremmo nel testo espressioni di condanna o di simpatia
(il povero Renzo! del Manzoni), o
riflessioni e giudizi esplicitamente espressi sul comportamento del
protagonista.
c.
Altri aspetti veristici del testo si manifestano nell'accurato riferimento a
località geografiche realmente esistenti, nell'ambientazione della storia in
epoca contemporanea all'autore e nel linguaggio, semplice e vicino al modo di
esprimersi dei personaggi. Molto elaborata è invece la sintassi, basata su
periodi ampi e fluenti (è questa una caratteristica dello stile del Verga, come
lo era stata del Manzoni).