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2. LUIGI
PIRANDELLO
LA VITA
Luigi Pirandello nacque nel 1867 ad Agrigento, in Sicilia, da una
famiglia di commercianti. Interessato agli studi linguistici e filologici,
frequentò le Università di Palermo e Roma e si laureò a Bonn in Germania, dove insegnò
per un anno. Tornato in Italia, cominciò a dedicarsi alla letteratura entrando
in contatto, grazie al Capuana, con i veristi (allo stile di questa corrente
appartengono infatti le sue prime opere).
Si sposò intanto con Antonietta Portulano, che gli diede tre
figli: ma nel 1904, quando lo scrittore non era ancora quarantenne, la famiglia
subì un grave tracollo economico, essendosi allagata la miniera di zolfo che ne
garantiva il benessere. Nel frattempo, la moglie di Pirandello cadeva vittima
di un grave squilibrio mentale (che la portò, dieci anni dopo, all'internamento
in un ospedale psichiatrico). Pirandello si dedicò all'insegnamento,
prevalentemente a Roma, fino all'età di cinquantacinque anni. Dopo gli anni
Venti le sue opere cominciarono a riscuotere successo ed egli poté dedicarsi al
teatro, che gli stava particolarmente a cuore, allestendo una propria
compagnia, nella quale spiccava la giovane attrice Marta Abba. Dal '24 lo
scrittore aveva aderito al Fascismo, non si sa con quanta convinzione: nelle
sue opere, infatti, i temi politici sono completamente assenti. Due anni prima
della sua morte, avvenuta a Roma nel 1936, all'età di quasi settant'anni,
Pirandello ottenne il premio Nobel per la letteratura.
LEPOCA E IL PENSIERO
Pirandello visse la propria infanzia in Sicilia, nell'Italia ormai
unificata, e si formò culturalmente negli anni del Positivismo e della
letteratura verista: il suo pensiero e le prime opere sono infatti legate a
queste tendenze. Mentre nella vita privata egli era colpito da gravi difficoltà
e dal dramma della malattia mentale della moglie (il tema della follia si
incontra spesso nei suoi scritti), l'Europa ottimistica di fine Ottocento
rapidamente si dissolveva nella crisi che doveva portare alla prima guerra
mondiale e alla violenta esplosione della rivoluzione russa e delle lotte
civili da cui emerse, in Italia, la dittatura fascista. Nel frattempo veniva
meno anche la fiducia nelle certezze scientifiche che aveva animato il
Positivismo.
Questa crisi delle certezze trova piena espressione nel tema
principale presente nelle opere di Pirandello, che riguarda il problema della
verità: questa concezione è chiaramente espressa nell'opera teatrale Così è, se vi pare, tratta dalla novella
La signora Frola e il signor Ponza, suo genero
di cui più avanti parleremo. Secondo lo scrittore, ognuno ha la propria verità
e nessuna di esse può venir definita tale: chi dunque determina l'identità
dell'uomo e la presunta verità sono le convenzioni sociali, che si affermano
con la forza delle maggioranze e possono imporre, per esempio, a un individuo
la maschera dello jettatore (come accade nella novella La patente), fino al punto da non lasciargli nessuna possibilità di
sfuggire al ruolo che la società ha stabilito per lui.
D'altronde, secondo Pirandello, se la persona è una è anche centomila, perché la sua identità è in
continuo cambiamento, poiché si indossano infinite maschere e ognuno si fa una
diversa immagine del proprio simile; dunque, in definiva, l'individuo è nessuno. A questa amara concezione della
vita si accompagna un'idea della morte simile a quella che vedremo prevalere
nel Decadentismo: se già l'esistenza è mistero inafferrabile dalla ragione,
vivente rappresentazione teatrale, ancor meno si può dire su cosa possa
attenderci dopo la morte. Forse, come si narra in una breve novella della tarda
età, Di sera, un geranio, quel che
resta dell'indefinibile io umano si perderà nella vita cosmica lasciando, come
unica traccia di sè, solo un improvviso e fugace soffio che può ravvivare il
colore di un geranio. Questa novella è però variamente interpretata: quello che
è certo è il fatto che negli ultimi anni, il bisogno di risposta alla domanda
sul destino umano oltre la morte spinse sempre più lo scrittore verso il
misticismo e verso un'ansia di fede che trova espressione negli ultimi scritti.
Vedremo ora come vengono sviluppate le tesi filosofiche
pirandelliane nelle principali fra le numerose opere di Pirandello (esse hanno
quasi sempre a fondamento un preciso messaggio). Nell'accostarci alla
produzione di questo scrittore dobbiamo tener presente che egli preferisce però
narrare anche gli eventi più drammatici in modo umoristico, come chiarirà in un
importante saggio.
LE OPERE
Dopo una breve fase giovanile di produzione letteraria romantica,
poco dopo i vent'anni, anche per incoraggiamento di Capuana, Pirandello
incominciò a dedicarsi alla narrativa e a scrivere novelle in stile verista (le
quali confluiranno, molto più avanti nel tempo, nella raccolta Novelle per un anno).
Lo stile verista di Pirandello si distingue da quello del Verga
per il carattere più ironico e umoristico delle sue narrazioni veriste.
Il primo importante romanzo di Pirandello è Il fu Mattia Pascal del 1904.
Questa la trama:
Mattia
Pascal lascia la famiglia dopo un litigio e a Montecarlo vince una grossa somma
al gioco. Da una notizia di cronaca apprende che è stato ritrovato il cadavere
di uno sconosciuto che, per un equivoco, è stato scambiato per lui:
ufficialmente, dunque, Mattia Pascal è morto. Il protagonista approfitta della
situazione, pensando di poter evadere
dalle gabbie della vita sociale: diventa, così, Adriano Meis. A poco a poco,
però, egli scopre che, così com'è, praticamente ha cessato di esistere (non può
sposarsi, non può sporgere una denuncia...) e che l'identità di ogni uomo è
quella attribuita dalla carta d'identità e dalle convenzioni sociali. Decide
perciò di tornare e rivelare la verità ma, giunto a casa, si rende conto che
tutti si sono adattati alla sua assenza e che per lui non c'è più posto: perciò
egli finisce per vivere come un'ombra con una vecchia zia, e trascorre il tempo
in biblioteca parlando con don Eligio e scrivendo la propria storia. Ogni tanto
si reca al cimitero a portare fiori sulla propria tomba e, a chi gli chiede il
suo nome, risponde di essere il fu Mattia Pascal.
Con questo romanzo Pirandello abbandona il Verismo e introduce le
sue tipiche tematiche. Ciò è già evidente nelle due prefazioni: la prima ha
come io narrante Mattia Pascal che scrive, fra l'altro: lascio questo mio manoscritto (
), con l'obbligo però che nessuno possa
aprirlo se non dopo la mia terza, ultima e definitiva morte; nella seconda,
di carattere filosofico (come molti testi pirandelliani) incontriamo il
seguente passo:
-Maledetto
sia Copernico!-
-Oh,
oh, oh, che c'entra Copernico! - esclama don Eligio, levandosi su la vita, col
volto infuocato sotto il cappellaccio di paglia.
-C'entra,
don Eligio. Perché, quando la Terra non girava...
- E
dalli! Ma se ha sempre girato!
- Non
è vero. L'uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti,
anche adesso, non gira. L'ho detto l'altro giorno a un vecchio contadino, e
sapete come m'ha risposto? ch'era una buona scusa per gli ubriachi (...)
Da passi come questo già emerge la tesi centrale dell'opera dello
scrittore: è vero ciò che ciascuno crede, perchè nessuno può sapere qual'è la
verità vera, ma solo quella che gli pare la verità. La battuta finale evidenzia
inoltre il gusto umoristico di Pirandello.
L'umorismo è
appunto il titolo di un importante saggio che, nel 1908, lo scrittore dedica
all'argomento.
Ciò che Pirandello intende per umorismo emerge chiaramente da
questo passo:
Vedo
una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti di non si sa quale
orribile manteca (pasta grassa usata come cosmetico), e poi tutta goffamente imbellettata e
parata d'abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora
è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere.
Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione
comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene
in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova
forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre
e pietosamente s'inganna che, parata così, nascondendo cioè le rughe e la
canizie (i capelli bianchi), riesca a
trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non
posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me,
mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro:
da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo
sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza fra il comico e
l'umoristico. (...)
Si ha, dunque, umorismo quando l'intelligenza e la sensibilità ci
fanno cogliere il risvolto amaro di una situazione avvertita come
apparentemente comica (viene da pensare al comportamento assurdo e
apparentemente ridicolo del folle, col quale Pirandello dovette a lungo
convivere nella propria famiglia). E da questa amara comprensione nasce,
spesso, quella compassione per tanti miseri comportamenti umani, a prima vista
comici, che è sottintesa a molte pagine di questo scrittore.
Fra i numerosi romanzi pubblicati dallo scrittore, la maggior
parte degli studiosi concordano nel giudicare un capolavoro Uno, nessuno e centomila, pubblicato
dapprima a puntate su riviste e poi in volume nel '26, quando l'autore era
quasi sessantenne (ma il libro era già stato progettato da più di dieci anni).
Questa la trama.
Vitangelo
Moscarda, detto Gengé, da un'osservazione casuale della moglie riguardante la
forma del suo naso, è spinto a riflettere sul fatto che gli altri lo vedono in
modo diverso da come egli si vede. Scopre così che esistono centomila Moscarda:
per ogni persona, infatti, egli ha un'identità diversa. Si domanda allora
angosciato chi egli sia e decide di distruggere le immagini del suo io che si
sono fatti gli altri, in modo da diventare uno per tutti quanti.
Innanzitutto,
vorrebbe cancellare la fama di usuraio ereditata dal padre insieme alla banca
da cui trae i mezzi per la sua vita da benestante: per mettere in crisi
l'immagine che gli altri hanno di lui, sfratta un inquilino ma gli regala di
nascosto una casa. La folla che assiste allo sfratto vorrebbe linciarlo: poi,
quando viene a conoscenza della donazione, lo considera pazzo. Infine egli
cerca di liquidare la banca del padre e quasi tutti, compresa la moglie e gli
amici, lo ritengono ormai impazzito e cercano di farlo interdire. Dapprima egli
trova la comprensione di Anna Rosa, un'amica della moglie, ma poi ella, forse
sconvolta dalle sue teorie, gli spara e lo ferisce. Consigliato da un
sacerdote, Gengé dona infine tutte le proprie ricchezze a un'istituzione per
poveri, dove egli stesso va a vivere, riducendosi come un pazzo e tale venendo
giudicato ormai da tutti. Il finale, soggetto a varie interpretazioni, narra la
dissoluzione dell'io del protagonista nella natura.
Il romanzo, come la maggior parte delle opere di Pirandello, vuol
dimostrare una tesi filosofica: esso è decisamente innovativo soprattutto per
il contenuto: la struttura può ricordare, in chiave moderna, quella delle
narrazioni filosofiche degli Illuministi (in particolare dell'inglese Sterne, che
influenzò anche il Foscolo negli anni della stesura della Notizia intorno a Didimo Chierico).
Gran parte del romanzo, scritto con il tipico stile pirandelliano,
ci presenta, attraverso un io narrante, le tesi fondamentali dell'autore sulla
verità e sull'identità umana. Assai ambigua e aperta a molte interpretazioni è
la conclusione. Ecco un breve stralcio dalle ultime pagine del romanzo.
La
vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest'albero, respiro tremulo di
foglie nuove. Sono quest'albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro
che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. (...) E tutto, attimo per
attimo, è com'è, che s'avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non
vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso
vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta
in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane
costruzioni. La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro,
il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma
fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante,
in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridio delle rondini o nel
vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei. Pensare alla morte,
pregare. C'è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane.
Io non l'ho più questo bisogno; perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e
senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.
Si tratta di un passo difficile, che si presta a molte
interpretazioni e che variamente è stato interpretato dai critici (anche in
questa ambiguità o polisemìa dei testi in prosa ritroviamo un aspetto
innovatore degli scritti pirandelliani). Questa è una possibile chiave di
lettura (che non è, però, l'unica): Gengé intende affermare che l'unico modo
per superare la dissoluzione della personalità che nasce dal rapporto con gli
altri è non avere rapporti con gli uomini né permettere alla ragione di
costruire le sue vuote teorie, che non portano a nessuna verità, ma vivere a
contatto con la natura, fino al punto di identificarsi e dissolversi in essa;
ed esistere solo nel presente, come se si fosse senza memoria, morendo e
rinascendo ogni attimo, senza più identità né maschere.
E' solo una possibile interpretazione: è certo, comunque, che il
tema della dissoluzione della personalità si è imposto drammaticamente a
Pirandello anche in conseguenza della malattia mentale della moglie, che lo
costrinse a interrogarsi su cosa realmente sia l'io dell'uomo e che cosa
significhi la disgregazione della sua personalità.
Un altro capolavoro della narrativa pirandelliana è rappresentato
dalla raccolta Novelle per un anno,
cui lo scrittore lavorò fino alla morte. Il titolo deriva dall'intenzione di
scriverne 365; ne furono ultimate solo 225, suddivise in varie raccolte
pubblicate in diversi periodi.
Se leggiamo le novelle tenendo conto della data della loro
composizione, possiamo ripercorrere le tre fasi fondamentali dell'evoluzione
pirandelliana.
Un primo gruppo di novelle ha infatti caratteristiche veriste (di
quel particolare verismo umoristico che contraddistingue i testi di Pirandello
da quelli del Verga). Questa, per esempio, la trama di una delle più famose
novelle di questo gruppo: La giara.
Don
Lollò Zirafa, avaro possidente siciliano, avendo bisogno di un recipiente in
vista della raccolta delle olive, acquista una giara nuova. Essa viene però
ritrovata rotta. Don Lollò, dopo essersi disperato, si lascia convincere a
rivolgersi al vecchio conciabrocche zi'Dima Licasi, che afferma di possedere un
mastice miracoloso. Lo Zirafa però non si fida di lui e pretende che, oltre a
usare il mastice, applichi dei punti di sutura alla giara. Deluso e irritato, zi'
Dima applica i punti dall'interno, senza badare al fatto che il collo della
giara è stretto, e vi rimane imprigionato. Per liberarlo non c'è altro mezzo
che rompere definitivamente la giara, ma don Lollò non ne vuol sapere. Il suo
avvocato lo avverte che non può tenere sequestrato il conciabrocche: la giara
dovrà essere rotta, e zi' Dima dovrà pagare il danno.
Il
vecchietto, però, non intende pagare e dichiara di esser disposto a trascorrere
il resto della vita nella giara.
Quando
scende il buio, zi' Dima fa acquistare dai contadini cibo e vino e organizza
una festa indiavolata, alla quale partecipa dall'interno della giara. Accecato
dall'ira, don Lollò si scaglia contro la giara e la rompe con un calcio: così,
la vince zi' Dima.
Le novelle degli ultimi anni toccano invece, spesso, il tema della
morte. Tipico esempio è Di sera, un
geranio. In questa brevissima, intensa prosa, il narratore ci presenta la
morte di una persona di cui non viene detto il nome. Dopo l'ultimo respiro,
vengono mostrate, come appaiono all'io del morto, le visioni del suo corpo
abbandonato, degli oggetti che gli erano appartenuti, della villa...Ed ecco la
conclusione.
Ma
ora lui è come la fragranza di un'erba che si va sciogliendo in questo respiro,
vapore ancora sensibile che si dirada e vanisce, ma per finire, senz'aver più
nulla vicino; sì, forse un dolore; ma se può far tanto ancora di pensarlo, è
già lontano, senza più tempo, nella tristezza infinita d'una così vana
eternità.
Una
cosa, consistere ancora in una cosa, che sia pur quasi niente, una pietra. O
anche un fiore che duri poco: ecco, questo geranio...
-Oh,
guarda giù, nel giardino, quel geranio rosso. Come s'accende! Perché?
Di
sera, qualche volta, nei giardini s'accende così, improvvisamente, qualche
fiore; e nessuno sa spiegarsene la ragione.
In questa novella, oltre alla tematica trattata, colpiscono le
innovazioni stilistiche, destinate a fare scuola nella prosa del Novecento: in
particolare, la conclusione in cui il narratore è multiplo: dapprima è interno
e presenta il punto di vista dell'io del morto; poi, in una battuta, riferisce
le parole pronunciate da un indefinito personaggio che ha assistito alla morte;
infine, l'ultima parola spetta al narratore esterno, che però lascia
volutamente aperta a più interpretazioni la conclusione.
La maggior parte delle altre novelle pirandelliane appartengono,
come i romanzi, al genere del racconto filosofico, costruito per dimostrare una
precisa tesi dell'autore. Ne sono tipici esempi La patente o La signora Frola
e il signor Ponza, suo genero, di cui ci occuperemo nell'analisi testuale.
Da molte di queste novelle Pirandello ha poi ricavato opere teatrali.
IL TEATRO
Le opere teatrali di Pirandello, composte lungo l'arco di tutta la
vita (all'ultima, rimasta incompiuta: I
giganti della montagna, egli lavorò perfino sul letto di morte), sono
raccolte sotto il titolo Le maschere nude.
Anch'esse possono suddividersi in commedie realistiche, opere degli ultimi anni
(assai complesse e di aperta interpretazione) e opere a tesi filosofica.
Celebre esempio di questo genere di testi teatrali è l'Enrico IV (1922), la cui trama può essere così sintetizzata:
Un
giovane, che impersona l'imperatore Enrico IV, in una festa in maschera viene
fatto cadere da cavallo, batte la testa e impazzisce. Per dodici anni si crede
l'imperatore: quando guarisce, scopre che Matilde Spina, la donna che amava, è
diventata amante di Tito Belcredi, il rivale che l'ha fatto cadere. Decide allora di fingersi pazzo per non rientrare
nella realtà: ma quando Belcredi, Matilde e la figlia Frida vengono a trovarlo,
rivela la finzione. Poiché per lui il tempo si è fermato, egli ama la giovane
Frida come se fosse la Matilde di un tempo: ma quando egli abbraccia la
ragazza, Belcredi lo aggredisce ed egli, spinto anche dal desiderio di
vendetta, lo uccide trapassandolo con la spada. Il protagonista dovrà così
continuare a fingersi pazzo, per sfuggire alle conseguenze del proprio delitto.
Le tesi sviluppate nell'opera sono tipicamente pirandelliane: la
prima di esse riguarda il rapporto fra la follia e la sanità mentale: secondo
l'autore, nei continui cambiamenti della vita il passaggio dall'una all'altra è
continuo, ed è ancora una volta la società a determinarne le regole. L'altra,
presente in molte opere teatrali pirandelliane, riguarda il rapporto fra vita e
teatro: secondo lo scrittore, la vita è teatro, perché continuamente indossiamo
maschere nel tentativo di darci, attraverso finzioni, un volto; e il teatro è
vita. Le ultime opere pirandelliane (per esempio, Sei personaggi in cerca d'autore) abbatteranno infatti la
separazione fra personaggi e attori che ne interpretano le vicende, fra scena e
platea, fra attori e pubblico, coinvolgendo gli spettatori nella storia
rappresentata: e sarà questa una rivoluzione che influenzerà tutto il
successivo teatro contemporaneo.
I TESTI
Un tipico testo pirandelliano è la novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero. Si tratta di un
racconto a tesi, con taglio umoristico e ambientazione realistica. Il
significato è riassumibile in poche frasi: due persone sconosciute giunte in un
paese, Valdana, sostengono due opposte verità su una terza persona, una giovane
donna. Secondo la signora Frola, la donna è sua figlia mentre il marito,
impazzito, la crederebbe la sua seconda moglie; secondo il signor Ponza, la
donna è la sua seconda moglie ma la signora Frola, impazzita, la crederebbe sua
figlia, che in realtà sarebbe morta. La gente del paese non ha alcun elemento
per poter dire chi sia il folle e chi dica la verità.
La tesi sviluppata da Pirandello è evidente, e riguarda
l'impossibilità di stabilire la verità. Questa tesi è ulteriormente chiarita
nell'opera teatrale tratta dalla novella, Così
è, se vi pare, composta nel 1917, in cui nel finale la donna che potrebbe
risolvere l'enigma viene fatta entrare in scena. Ella dichiara: "Io sono
colei che mi si crede", rivelando così di essere una sorta di allegoria
della verità.
In questa frase è sintetizzato con chiarezza il principio del
relativismo, che ha ampiamente influenzato il XX secolo. Qualunque sia il
nostro giudizio su questo principio, è indiscutibile che anche per averne
anticipato la diffusione Pirandello deve essere ritenuto un grande innovatore.
Ecco l'inizio, due stralci dalla parte centrale, e la conclusione
della novella.
Ma
insomma, ve lo figurate? c'è da ammattire sul serio tutti quanti a non poter
sapere chi tra i due sia il pazzo, se questa signora Frola o questo signor
Ponza suo genero. Cose che capitano soltanto a Valdana, città disgraziata,
calamita di tutti i forestieri eccentrici! Pazza lei o pazzo lui, non c'è via
di mezzo: uno dei due dev'essere pazzo per forza. Perché si tratta niente meno
che di questo...Ma no, è meglio esporre prima con ordine. Sono, vi giuro,
seriamente costernato dall'angoscia in cui vivono da tre mesi gli abitanti di
Valdana, e poco m'importa della signora Frola e del signor Ponza, suo genero.
Perché, se è vero che una grave sciagura è loro toccata, non è men vero che uno
dei due ha avuto la fortuna d'impazzirne e l'altro l'ha ajutato, seguita ad
ajutarlo così che non si riesce, ripeto, a sapere quale dei due veramente sia
pazzo; e certo una consolazione meglio di questa non se la potevano dare. Ma
dico, di tenere così, sotto quest'incubo, un'intera cittadinanza, vi par poco?
(...)
Dopo aver narrato come i due, giunti da poco a Valdana, si
comportano nei confronti della giovane arrivata con loro (Ponza non permette
alla signora Frola di visitarla), il narratore fa esporre ai protagonisti le
contrapposte verità.
Il
signor Ponza viene alla sua dichiarazione doverosa. La quale è questa,
semplicemente: che la signora Frola, poveretta, non pare, ma è pazza. Pazza da
quattro anni, sì. E la sua pazzia consiste appunto nel credere che egli non
voglia farle vedere la figliola. Quale figliola?E' morta, è morta da quattro
anni la figliola; e la signora Frola, appunto per il dolore di questa morte, è
impazzita; per fortuna, sì, giacché la pazzia è stata per lei lo scampo al suo
disperato dolore. Naturalmente non poteva scamparne se non così, cioè credendo che
non sia vero che la sua figliola è morta e che sia lui, invece, suo genero, che
non vuole più fargliela vedere. Per puro dovere di carità verso un'infelice,
egli, il signor Ponza, seconda da quattro anni, a costo di molti e gravi
sacrifici, questa pietosa follia: tiene, con dispendio superiore alle sue forze, due case: una per
sé, una per lei; e obbliga la sua seconda moglie, che per fortuna
caritatevolmente si presta volentieri, a secondare anche lei questa follia.
(...)
Ecco invece la 'verità' della signora Frola.
Il
pazzo è lui, poveretto; e la sua pazzia consiste appunto in questo: nel credere
che sua moglie sia morta da quattro anni e nell'andar dicendo che la pazza è
lei, la signora Frola che crede ancor viva la figliola. (...) Crede sul serio
il poveretto che sua moglie sia morta e che questa che ha con sé sia una
seconda moglie. Caso pietosissimo! Perché veramente col suo troppo amore
quest'uomo rischiò in prima di distruggere, d'uccidere la giovane mogliettina
delicatina, tanto che si dovette sottrargliela di nascosto e chiuderla
all'insaputa di lui in una casa di salute. Ebbene, il pover'uomo, a cui già per
quella frenesia d'amore s'era anche gravemente alterato il cervello, ne
impazzì; credette che la moglie fosse morta davvero: e questa idea gli si fissò
talmente nel cervello, che non ci fu più verso di levargliela, neppure quando,
ritornata dopo circa un anno florida come prima, la moglietta gli fu
ripresentata. La credette un'altra; tanto che si dovette con l'ajuto di tutti,
parenti e amici, simulare un secondo matrimonio, che gli ha ridato pienamente
l'equilibrio delle facoltà mentali. (...)
Così si conclude la novella.
Certo
è questo, a ogni modo: che dimostrano tutt'e due, l'uno per l'altra, un
meraviglioso spirito di sacrifizio, commoventissimo; e che ciascuno ha per la
presunta pazzia dell'altro la considerazione più squisitamente pietosa.
Ragionano tutt'e due a meraviglia. (...) La signora Frola va spesso a trovare
il genero alla Prefettura (dove Ponza lavora) per aver da lui qualche consiglio,
o lo aspetta all'uscita per farsi accompagnare in qualche compera: e
spessissimo, dal canto suo, nelle ore libere e ogni sera il signor Ponza va a
trovare la signora Frola nel quartierino mobigliato; e ogni qual volta per caso
l'uno s'imbatte nell'altra per via, subito con la massima cordialità si mettono
insieme; egli le dà la destra e, se stanca, le porge il braccio, e vanno così,
insieme, fra il dispetto aggrondato e lo stupore e la costernazione della gente
che li studia, li squadra, li spia e, niente!, non riesce ancora in nessun modo
a comprendere quale sia il pazzo dei due, dove sia il fantasma, dove la realtà.
Analisi
del testo.
In questa mirabile novella è presente, oltre al messaggio
filosofico fondamentale, anche il tipico, innovativo modo di narrare di
Pirandello. Vediamone gli aspetti principali.
a. La
novella è ambientata in una situazione apparentemente realistica (le scene che
descrivono la vita del paese sono narrate quasi con gusto veristico). Tuttavia
in questa cornice realistica accade qualcosa di molto improbabile, se non
impossibile: questa vicenda è introdotta dall'autore quasi come apologo, per
esprimere una propria tesi filosofica.
b. La
struttura della novella ha un impianto rigorosamente razionale. Si apre con la
descrizione dell'angoscioso, insolubile dubbio degli abitanti di Valdana; nella
parte centrale presenta, quasi introducendole con le stesse parole (la sua pazzia consiste in questo è
l'espressione ripetuta per entrambi i protagonisti) e si chiude, con percorso
ad anello, ricongiungendosi al dubbio iniziale. La conclusione aggiunge però
qualcosa di importante quando presenta l'affettuosa solidarietà fra i due
protagonisti: è evidente che in questa direzione Pirandello vuole spingere gli
esseri umani, dopo averli resi consapevoli dell'impossibilità di raggiungere la
verità.
c. La
voce narrante fa proprio il punto di vista degli abitanti di Valdana, irritati
per il fatto di non poter scoprire la verità, e ciò attribuisce un sapore
ironico e umoristico alla narrazione. Ma quando il punto di vista cambia, e
vengono riferite indirettamente le parole dei due protagonisti, il tono si fa
commosso e partecipe nei loro confronti: e tale è anche nel finale, quando il
narratore sembra aver dimenticato la sua iniziale irritazione e mostra simpatia
per questa coppia di persone così strane che, pur credendo a verità
contrapposte, si amano e sostengono a vicenda.