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4 . IL
DECADENTISMO, D'ANNUNZIO, PASCOLI
CHE COS'E' IL DECADENTISMO?
La tendenza filosofica e letteraria cui è stato dato il nome di
Decadentismo si è diffusa in Italia abbastanza tardivamente, sotto l'influsso
delle altre letterature europee. Esaminiamone il contenuto, presentando gli autori che le hanno dato
origine.
Edgar
Allan Poe, statunitense, morto quarantenne nel 1849 in seguito a un
attacco di delirium tremens dovuto a alcoolismo, è considerato dai
cosiddetti poeti maledetti francesi un loro precursore e maestro. La sua opera
più celebre sono i Racconti, storie
di orrore e paura nelle quali lo scrittore trasfigurava, spesso, gli incubi, le
allucinazioni e le angosce che realmente lo tormentavano (anzitutto, il terrore
di essere sepolto vivo).
Charles
Baudelaire, francese e traduttore di Poe, è il più importante fra i poeti
maledetti. La maggior parte delle sue opere fu pubblicata negli anni successivi
alla sua morte, avvenuta nel 1867, quando lo scrittore era poco più che
quarantenne. Il capolavoro di Baudelaire è la raccolta di testi poetici I fiori del male. Il titolo esprime
l'idea di fondo dei maledetti secondo cui la bellezza e la poesia (i fiori)
nascono dal negativo, dal male, dall'immoralità. Al poeta tutto è consentito,
secondo Baudelaire: in un celebre componimento, egli lo paragona a un albatros
che vola fra le nubi, al di sopra della gente comune: se però viene abbattuto e
diventa prigioniero della vita quotidiana, è oggetto di derisione.
Sempre a una poesia di Baudelaire, Corrispondenze, risale il principio del simbolismo che influenza tutta la poesia del Novecento: la Natura
vi viene paragonata a un tempio misterioso, che la ragione non può comprendere.
Solo il poeta può intuire i segreti legami simbolici che legano fra loro le
cose.
Paul
Verlaine, anch'egli francese, è il poeta che con un suo verso originò il
nome della nuova tendenza. Egli infatti scrisse, nel 1883: Io sono l'impero romano alla fine della decadenza (...).
Ispirandosi a questa concezione dell'uomo, nacque in Francia una rivista
letteraria, Il decadente, da cui il
nuovo movimento prese nome. Esso si caratterizzava per l'estetismo (esaltazione
della bellezza ritenuta superiore al bene, anzi contrapposta ad esso), per la
sregolatezza, la trasgressione in ogni campo, e per l'ammirazione di tutto ciò
che appariva anormale e morboso. Anche la crudeltà, l'uso delle droghe e la
pratica omosessuale erano viste come mezzi per superare ogni limite e
raggiungere l'ignoto, il mistero che sfugge alla conoscenza umana. In età avanzata,
Verlaine rinunciò alle proprie teorie e si convertì al Cristianesimo.
Arthur
Rimbaud , giovane amico di Verlaine (col quale ebbe una turbolenta
relazione omosessuale), scrisse le sue opere principali prima dei vent'anni. In
esse considerava il poeta come veggente, in grado di rubare all'ignoto i suoi
segreti a condizione di saper confondere i sensi con le esperienze più
sregolate (furono questi i primi autori a praticare e esaltare l'uso delle
droghe). Vittima di allucinazioni che sfuggivano al suo controllo, decise di
cambiare completamente vita e interruppe ogni attività letteraria per dedicarsi
al commercio di schiavi in Africa. Morì nel 1891, non ancora quarantenne.
Per completare il panorama dei nomi che, a livello europeo,
crearono le basi del modo di pensare del Decadentismo, dobbiamo ricordare anche
un filosofo tedesco che, pur non avendo diretti rapporti coi poeti maledetti
francesi, fu un punto di riferimento cui si riferivano tutti coloro che
negavano qualsiasi importanza alla ragione contrapponendole l'irrazionalismo
basato sull'istinto e la volontà di potenza, cioè di predominio, in aperta
opposizione ai valori tradizionali.
Il tedesco Friedrich
Nietzche, che morì folle, cinquantaseienne, nell'anno 1900, negava
l'esistenza di qualsiasi verità, ritenendo che esse nascessero solo da rapporti
di forza; identificava nel razionalismo di Socrate e nei valori del
Cristianesimo le cause delle decadenza dell'Occidente e, infine, teorizzava
l'avvento del superuomo, al di sopra di ogni regola morale tradizionale (al di là del bene e del male), rispetto
al quale l'uomo si doveva considerare solo un punto di passaggio.
Come una tempesta, questo insieme di teorie, nei decenni fra il
XIX e il XX secolo, sconvolse il modo di pensare di tutta l'Europa.
Nel campo della letteratura, i Decadenti capovolsero i valori
proposti e i temi trattati e, nella poesia in particolare, rifiutarono le
regole tradizionali di scrittura, portando all'affermazione del Simbolismo. Sul
piano della metrica, dapprima ricorsero all'uso di versi isosillabici liberi e
poi, nei primi decenni del Novecento, all'introduzione del verso libero.
Nel Decadentismo vanno distinti fra loro due aspetti: il pensiero,
che spesso è all'origine di mode pesantemente negative che fanno sentire la
loro influenza ancora ai nostri giorni, e il rinnovamento dell'arte e della
letteratura, che ha prodotto testi di grande valore, i quali hanno influenzato
per più di un secolo la narrativa e la poesia europea e mondiale. In queste
pagine ci soffermeremo, ovviamente, soprattutto sul secondo aspetto.
Ecco, a titolo di esempio, il poemetto in prosa di Rimbaud
intitolato Alba, che permette di
comprendere che cosa si debba intendere per simbolismo: in questo testo,
infatti, l'aurora diventa allegoria, simbolo, di una donna, che viene amata dal
poeta.
Ho
abbracciato l'alba d'estate.
Niente
ancora si muoveva sulle facciate dei palazzi. L'acqua era morta. Le zone
d'ombra non abbandonavano la strada del bosco. Ho camminato, risvegliando soffi
vivi e tiepidi, e le pietre preziose aprirono gli occhi, e le ali si alzarono
senza un fruscio.
Il
primo incontro fu, nel sentiero ormai pieno di pallide e fresche luci, un fiore
che mi disse il suo nome.
Risi
alla bionda cascata che scompigliò i capelli attraverso gli abeti: dalla cima
d'argento riconobbi la dea. Allora, sollevai i suoi veli. Nel viale, dove
agitai le braccia. Nella pianura, dove la mostrai al gallo. Nella grande città
ella fuggiva fra campanili e cupole e io la inseguivo, correndo come un
mendicante sulle banchine di marmo.
In
cime alla strada, vicino a un bosco di allori, l'ho avvolta nei suoi veli, e ho
potuto toccarla da vicino. L'alba e il giovane si sono abbracciati in fondo al
bosco.
Al
risveglio, era mezzogiorno.
Alcuni temi del Decadentismo sono presenti anche nelle opere di
Pirandello e Svevo: il nuovo modo di scrivere, di cui è tipico esempio il testo
di Rimbaud, trova però la prima compiuta espressione, nella nostra letteratura,
negli scritti di Gabriele D'Annunzio e Giovanni Pascoli.
GABRIELE
D'ANNUNZIO
LA VITA, IL PENSIERO, LE OPERE.
Gabriele D'Annunzio nacque nel 1863 a Pescara, da famiglia
signorile. Ritenuto un bambino prodigio, venne inviato a studiare in un liceo
di Prato, dove si dimostrò lettore infaticabile. A sedici anni pubblicò a spese
della famiglia la prima raccolta di poesie, Primo
vere, e riuscì a lanciarla diffondendo la falsa notizia della precoce morte
dell'autore. Egli dimostrava così di aver compreso che, nel mercato
novecentesco delle lettere, far notizia è importante per promuovere la
produzione artistica.
A diciotto anni giunse a Roma, dove si iscrisse alla facoltà di
Lettere, collaborò a riviste, frequentò ambienti altolocati e sposò una
duchessina. Di queste esperienze troviamo traccia nel primo romanzo, Il piacere, pubblicato all'età di
ventisei anni, una storia d'amore sensuale già di gusto decadente: in essa
l'autore, attraverso il protagonista, Andrea Sperelli, esprime il suo disprezzo
per la democrazia e la gente comune:
Sotto
il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge
miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica
nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa
tradizion familiare d'eletta cultura, d'eleganza e d'arte. A questa classe,
ch'io chiamerei arcadica perché rese a punto il suo più alto splendore
nell'amabile vita del XVIII secolo, appartenevano gli Sperelli. L'urbanità,
l'atticismo (l'eleganza), l'amore per le
delicatezze, la predilezione per gli studii insoliti, la curiosità estetica, la
mania archeologica, la galanteria raffinata erano nella casa degli Sperelli
qualità ereditarie. (...)
In questo romanzo, D'Annunzio già dimostra le caratteristiche di
fondo della sua arte (e anche della sua vita): il culto del bello, identificato
con ciò che è raffinato patrimonio di pochi, e la sensualità istintiva,
sottratta a ogni regola morale.
Negli anni successivi egli scrisse molte altre opere di poesia e
prosa, condusse vita sregolata e infine, carico di debiti, prima dei trent'anni
lasciò la famiglia e Roma e si trasferì a Napoli, dove conobbe nuovi amori,
praticò il culto dell'io, esaltando la propria figura e personalità, e si
avvicinò alla politica su posizioni nazionaliste. Dopo aver trascorso qualche
anno in Abruzzo, incontrò a Venezia la grande attrice Eleonora Duse, con la
quale intrecciò una nuova relazione. In quegli stessi anni pubblicò la raccolta
poetica che è ritenuta il suo capolavoro: Le
laudi (la parte migliore è il terzo libro, Alcyone) nelle quali propone, in modo innovativo per la letteratura
italiana, alcuni temi e lo stile dei decadenti francesi.
Lo scrittore faceva intanto propria, interpretandola a suo modo,
la teoria nietzchiana del superuomo.
Eletto in Parlamento nel 1897 per la Destra, poco più che trentenne,
D'Annunzio viaggiò, cambiò residenza, continuò a scrivere: viveva nel lusso più
sfrenato e contemporaneamente era affascinato dalla figura di san Francesco e,
periodicamente, era presa dalla nostalgia per la vita semplice della natia
terra d'Abruzzo. Nel 1910, dopo dieci intensi anni trascorsi soprattutto a
Firenze, fu nuovamente sommerso dai debiti e dovette trasferirsi in Francia.
Quando ritornò, quarantenne, in Italia, assunse la guida del movimento
interventista e organizzò manifestazioni per l'ingresso in guerra: poi partì
per il fronte dove, in seguito a una ferita, perse un occhio. Durante il
periodo in cui dovette restare bendato e come cieco scrisse il Notturno, un diario in prosa senza
precedenti, nel quale, con stile originalissimo, narrava immagini, sensazioni,
emozioni e ricordi. Eccone un frammento:
La
primavera entra in me come un nuovo tossico. Ho le reni dolenti, in una
sonnolenza rotta di sussulti e di tremori.
Ascolto.
Lo
sciacquio alla riva lasciato dal battello che passa.
I
colpi sordi dell'onda contro la pietra grommosa (incrostata).
Le
grida rauche dei gabbiani, i loro scrosci chiocci, le loro risse stridenti, le
loro pause galleggianti. Il battito di un motore marino. Il chioccolìo sciocco
del merlo. Il ronzìo lugubre d'una mosca che si leva e si posa. Il ticchettio
del pendolo che lega tutti gli intervalli. La gocciola che cade nella vasca da
bagno. (...) Ecco quella stilla continua nella vasca del bagno, quella stilla
di caverna paurosa! Mi diventa intollerabile. Mi corrode, mi buca, mi trapassa.
(...)
Dopo la fine della guerra iniziò il sodalizio fra D'Annunzio e
Mussolini, che aveva nel frattempo fondato i Fasci di combattimento. Quasi
sessantenne, con un gruppo di volontari armati, lo scrittore, che si presentava
ormai come il vate (cioè il profeta)
del nazionalismo italiano, occupò per qualche tempo la città di Fiume, per
rivendicarne il passaggio all'Italia; appoggiò poi il Fascismo fino alla presa
del potere da parte di Mussolini.
Successivamente, si rinchiuse nella villa che si era fatto
costruire a Gardone Riviera, vero e proprio monumento a se stesso e al proprio
eroismo, cui diede il nome di Vittoriale degli Italiani. Principalmente nel
Vittoriale egli trasorse gli ultimi anni, circondato ancora da amanti e onorato
dal governo, fino alla morte che lo raggiunse nel 1938, all'età di
settantacinque anni.
I TESTI
Nel bene e nel male, il pensiero e lo stile di D'Annunzio
influenzarono per quasi mezzo secolo gli Italiani (loratoria dello stesso
Mussolini imitava quella dello scrittore).
Basta leggere poche righe di un romanzo dannunziano per
riconoscerne le inconfondibili caratteristiche di stile. Ecco, per esempio,
l'inizio de Il piacere:
L'anno
moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor
velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie
erano popolose come nelle domeniche di maggio. Su la piazza Barberini, su la
piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e
dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de'Monti,
alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato. Le
stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo che esalavan ne' vasi i
fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di
cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in
guisa d'un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la
vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. (...)
Già dalla lettura di queste righe emergono alcuni aspetti tipici
della scrittura dannunziana:
a. I
periodi sono ampi, complessi, fluenti.
b. Il
lessico è scelto con cura, utilizzando costrutti o vocaboli difficili e poco
usati, tratti dalla tradizione letteraria.
c. C'è
un uso frequentissimo di aggettivi (per esempio, ben quattro attributi
affiancano il sostantivo tepor). In
generale, il gusto espressivo dannunziano predilige una sovrabbondanza di
parole.
d.
L'estetismo (esaltazione dell'arte e della bellezza) si manifesta nei numerosi
riferimenti a opere pittoriche o a palazzi nobiliari.
e.
Nella prosa vengono abbondantemente usate figure retoriche proprie della poesia
(questa caratteristica è tipica del Decadentismo: è presente per esempio, anche
in Alba di Rimbaud).
Lo stile dannnziano, nel suo insieme, ha caratterizzato, a causa
dei numerosissimi (e spesso scadenti) imitatori, il modo di esprimersi
dell'Italia fascista in un modo così eccessivo che la parola retorica, che significa arte del bel
parlare e del bello scrivere, ha nel secondo dopoguerra assunto una
connotazione negativa.
LA POESIA
Indiscutibilmente più valide sono le innovazioni apportate da
D'Annunzio nel campo della poesia. Eccone un esempio, rappresentato dai primi
versi de La pioggia nel pineto
(lirica appartenente alla raccolta Alcyone).
L'intero testo narra la metamorfosi in elementi della natura del poeta e di
Ermione, la donna amata con la quale egli si trova in un bosco quando inizia a
piovere.
Taci.
Su le soglie
del
bosco non odo
parole
che dici
umane;
ma odo
parole
più nuove
che
parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta.
Piove
dalle
nuvole sparse.
Piove
su le tamerici
salmastre
ed arse,
piove
su i pini
scagliosi
ed irti,
piove
su i mirti,
divini,
su le
ginestre fulgenti
di
fiori accolti,
su i
ginepri folti
di
coccole aulenti,
piove
su i nostri volti,
silvani,
piove
su le nostre mani
ignude,
su i
nostri vestimenti
leggieri,
su i
freschi pensieri
che
l'anima schiude
novella,
su la
favola bella
che
ieri
t'illuse,
che oggi m'illude,
o
Ermione. (...)
Parafrasi. Taci (Ermione). All'ingresso del bosco non
sento più le tue parole umane, ma sento nuove parole pronunciate dalle gocce e
dalle foglie lontane. Ascolta. Piove dalle nubi sparse. Piove sui cespugli
delle tamerici, bruciati dal sale marino e dal calore; piove sui pini coperti
di scaglie e di aghi; piove sui mirti sacri (per gli antichi); sulle ginestre
splendenti di fiori raggruppati; sui ginepri pieni di bacche profumate; piove
sui nostri volti di creature del bosco (silvani), piove sulle nostra mani nude,
sui nostri vestiti leggeri, sui freschi pensieri che l'anima rinnovata (dalla
pioggia) fa fiorire (dischiude), sulla favola bella (d'amore) che ieri ti
illuse e che oggi mi illude, o Ermione.
E' sufficiente confrontare il testo con la parafrasi per capire
che il fascino di questa lirica dipende dalle stupende suggestioni musicali che
essa contiene (e che vanno perdute nella trascrizione in prosa). Per
raggiungere questo mirabile risultato ritmico-musicale, anzitutto il poeta fa
uso sì di versi isosillabici, ma liberamente scelti e rimati senza uno schema
preciso (ed è, questo, un decisivo passo in avanti nella direzione del verso
libero). Ricorre inoltre a ripetizioni di vocaboli (odo, parole, piove...) e a frequentissime rime,
allitterazioni, assonanze, consonanze di ogni sorta. La musicalità delle parole
guida la loro scelta (ginepro, per
esempio, compare perché riecheggia ginestra).
Anche le ardite metafore (piove...su i
freschi pensieri) sono subordinate a queste scelte musicali (freschi, schiude). In questa lirica,
rimasta giustamente celebre, D'Annunzio insegna la via da seguire ai poeti
italiani del Novecento che punteranno alla suggestione evocata dalla musicalità
delle parole.
In un altro testo, tratto sempre dall'Alcyone, intitolato La sera
fiesolana, D'Annunzio mostra invece come ottenere effetti suggestivi
operando con le immagini, i colori e le metafore. Ecco l'inizio della lirica,
in cui il poeta si rivolge prima alla sua donna e poi alla Sera,
personificandola.
Fresche
le mie parole ne la sera
ti
sien come il fruscio che fan le foglie
del
gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso
e ancor s'attarda a l'opra lenta
su
l'alta scala che s'annera
contro
il fusto che s'inargenta
con
le sue rame spoglie
mentre
la Luna è prossima a le soglie
cerule
e par che innanzi a sé distenda un velo
ove
il nostro sogno si giace
e par
che la campagna già si senta
da
lei sommersa nel notturno gelo
e da
lei beva la sperata pace
senza
vederla.
Laudata
sii pel tuo viso di perla
a
Sera, e pe' tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l'acqua
del cielo!
(...)
Parafrasi. Le mie parole nella sera siano per te
fresche come il fruscio che fanno le foglie del gelso nella mano di chi in
silenzio le raccoglie e ancora, lentamente, si attarda al lavoro sull'alta
scala che diventa nera contro il tronco che diventa d'argento con i suoi rami
spogli, mentre la Luna è vicina alle azzurre (cerule) porte (del cielo) e
sembra che stenda intorno a sé un velo (cioè il suo alone) dove finiscono i
nostri sogni, e sembra che la campagna si senta immersa da lei (cioè dalla
Luna) nel gelo notturno e che da lei attinga la pace che spera di ricevere, pur
non potendola ancora vedere. O Sera, che tu sia lodata per il tuo viso di perla
(la pianura illuminata dalla Luna) e per i grandi occhi umidi (cioè le limpide
pozze) formati dalla pioggia caduta silenziosamente.
Il testo poetico è costruito su un richiamo francescano (Laudata sii...) che si ripeterà più
avanti, su un contrasto di colori (la scala che s'annera, il tronco che
s'inargenta, le nubi, porte cerule del cielo, il viso di perla della terra...)
e su un gran numero di similitudini, metafore e altre figure retoriche (parole fresche è una sinestesia, parole
come il fruscio è una
similitudine, opra lenta è
un'ipallage...)
La metrica, pur facendo spesso ricorso a versi isosillabici, non
si basa su schemi: alcuni versi (per esempio il quarto, di misura superiore
all'endecasillabo) si possono già considerare liberi. Frequenti sono gli
enjambements (fortissimo, per esempio, foglie
/ del gelso), che rallentano il ritmo, permettendo alla fantasia del
lettore di soffermarsi sul flusso delle immagini evocate. In questo testo,
D'Annunzio si dimostra maestro per quei poeti italiani che, scrivendo alla
maniera dei Decadenti, punteranno su una lirica che suggestiona il lettore
soprattutto attraverso immagini e metafore.
GIOVANNI
PASCOLI
LA VITA, IL PENSIERO, LE OPERE
Giovanni Pascoli nacque nel 1855, quarto fra dieci figli, a San
Mauro di Romagna, dove il padre amministrava una tenuta. Il ricordo felice dei
primi anni di vita in campagna resterà indelebile in lui, come quello di un
paradiso perduto.
Quando egli era solo dodicenne, nel fatale 10 agosto 1867, avvenne
la tragedia che ne avrebbe segnato la vita: il padre fu assassinato da
sconosciuti mentre in calesse ritornava a casa (gli autori del delitto non
furono mai scoperti e il movente rimase ignoto).
L'anno successivo, morirono anche la sorella maggiore e, distrutta
dal dolore, la madre; nel corso del decennio perirono poi altri due fratelli,
fra cui il piccolo padre Giacomo, che aveva cercato di ricostruire attorno a
sé il nido distrutto. Questa serie di catastrofi sconvolse il giovane Pascoli,
portandolo a pensare che l'universo e la vita fossero un mistero
incomprensibile, e che sul pianeta, atomo opaco del male, spadroneggiasse la
crudeltà degli uomini.
Grazie all'aiuto economico dei suoi professori egli riuscì poi a
laurearsi in Lettere e cominciò a esercitare la professione di insegnante, che
avrebbe svolto per tutta la vita. Attorno ai vent'anni si avvicinò alle idee
socialiste e scontò anche qualche mese di carcere per aver partecipato a una
manifestazione. Ma ben presto si disinteressò della politica attiva,
abbracciando un ideale umanitario al centro del quale collocava la figura di
Gesù, visto come modello di uomo buono, vittima della malvagità dominante nel
mondo.
A trentasei anni pubblicò la raccolta Myricae (cioè tamerici, in latino), che, secondo molti studios,i
contiene le sue migliori poesie. Dopo aver insegnato in varie città italiane, quasi
cinquantenne riuscì a comprare casa a Castelvecchio, in Garfagnana, e senza
essersi mai sposato lì visse con la sorella Maria fino alla morte. Fra le sue
successive raccolte sono da ricordare soprattutto i Canti di Castelvecchio. Importante è il saggio Il fanciullino, nel quale esprime la propria concezione della
poesia, identificando il poeta con la voce bambina presente in ogni uomo e che
l'adulto tende a soffocare.
Nel tentativo di esprimere il mistero e l'indefinito, Pascoli
ricorre a simboli e si colloca perciò, per il suo modo di esprimersi,
all'interno della tendenza letteraria nata con il Decadentismo. Un esempio
particolarmente evidente di simbolismo pascoliano lo ritroviamo nella poesia Il libro, che ci presenta un uomo che
continuamente sfoglia invano, alla ricerca di una verità che gli permetta di
capire, un libro, simbolo del mistero dell'universo e della vita.
Alla soglia del XX secolo, il Pascoli tenne il discorso L'era nuova nel quale, indirettamente
ricollegandosi al Leopardi de La ginestra,
egli invitava gli uomini, in vista del nuovo secolo, ad accettare la propria
condizione mortale e ad aiutarsi a vicenda, riconoscendosi in una religione
della fraternità. L'inizio del secolo, però, andò in tutt'altra direzione e
anche il Pascoli, che negli ultimi anni era stato nominato professore
universitario a Bologna sulla cattedra precedentemente occupata dal Carducci,
nel discorso La grande proletaria s'è
mossa, pronunciato nel 1911 in occasione della guerra di Libia, approvò la
spedizione militare italiana: ma ormai l'ideale nazionalista, per il quale si
batteva D'Annunzio, stava trionfando ovunque, trascinando l'Europa verso la
prima guerra mondiale.
L'anno successivo il Pascoli si spegneva a Bologna, all'età di
cinquantasette anni.
I TESTI
Possiamo distinguere i migliori testi pascoliani in due categorie.
Nella prima prevale il riferimento diretto, in forme espressive
chiaramente aperte e comprensibili, alla tragedia vissuta da ragazzo dal poeta,
presentata come un simbolo del mistero che avvolge l'universo e l'esistenza
umana e come un segno esemplare della malvagità umana. Un testo che rivela
tipicamente queste caratteristiche è X
Agosto, tratto da Myricae, di cui
qui presentiamo un ampio stralcio. Generalmente questi testi pascoliani hanno una
struttura più tradizionale anche sul piano metrico (in questo caso, le strofe
sono quartine di decasillabi e novenari, con rime alternate).
Ritornava
una rondine al tetto:
l'uccisero:
cadde tra spini:
ella
aveva nel becco un insetto:
la
cena de' suoi rondinini.
Ora è
là, come in croce, che tende
quel
verme a quel cielo lontano;
e il
suo nido è nell'ombra, che attende,
che
pigola sempre più piano.
Anche
un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero:
disse: Perdono;
e
restò negli aperti occhi un grido:
portava
due bambole in dono...
Ora
là nella casa romita,
lo
aspettano, aspettano invano:
egli
immobile, attonito, addita
le
bambole al cielo lontano.
E tu,
Cielo, dall'alto dei mondi
sereni,
infinito, immortale,
oh,
d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo
opaco del Male!
Il contenuto è di facile interpretazione: la lirica è costruita
attorno ad alcuni paralleli simbolici: fra la rondine uccisa (che ricorda anche
il Cristo: tra spini...come in croce) e il padre del poeta; fra le stelle
cadenti (che sono particolarmente numerose il dieci agosto, giorno in cui si
verificò il delitto) e il pianto del Cielo sul misero destino del buio mondo,
atomo opaco del Male. Pur contenendo elementi simbolistici la lirica è molto
lineare, e può idealmente anticipare il modo di esprimersi di poeti del
Novecento che cercano una comunicazione semplice e comprensibile da tutti (per
esempio, Umberto Saba).
Le maggiori innovazioni del Pascoli si ritrovano in testi che non
affrontano direttamente temi autobiografici. Eccone un esempio in due strofe de
Le rane (da Canti di Castelvecchio).
Qual
è questa via senza fine
che
all'alba è sì tremula d'ali?
chi
chiamano le canapine
coi
lunghi lor gemiti uguali?
tra i
rami giallicci del moro
chi
squilla il suo tinnulo invito?
chi
svolge dal cielo i gomitoli
d'oro?
Io
sento gracchiare le rane
dai
borri dell'acque piovane
nell'umida
serenità.
E
fanno nel lume sereno
lo
strepere nero d'un treno
che
va...
Esaminiamo alcune caratteristiche della poesia pascoliana presenti
in questi versi (caratteristiche che fanno dell'autore un maestro del
simbolismo italiano):
a. La
prima strofa crea un clima di mistero attraverso una serie di domande senza
risposta. C'è una via senza fine tremula d'ali, ma ci si domanda qual è; ci
sono degli uccellini, le canapine, che chiamano gemendo, e ci si domanda
perché; c'è un'altra voce indefinita, ma non sappiamo quale, che fa risuonare
il suo invito tinnulo (come di minuscola campanella) fra i rami; c'è poi una
metafora, che potrebbe essere interpretata in molti modi, la quale chiude in
modo ancora più misterioso la strofa: chi svolge gomitoli d'oro dal cielo?
Forse il sole con i suoi raggi, forse le allodole che volano in cerchio...
In contrapposizione alla strofa del canto, delle ali e dell'oro,
che è però anche quella del mistero e del dubbio, ecco poi aprirsi la strofa
della certezza: Io sento... L'unica cosa certa è questo gracchiare delle rane,
così monotono da diventare esso stesso nero
(si tratta di una sinestesia): è un gracidìo che ricorda una partenza anch'essa
misteriosa (nell'ultima strofa della lirica, qui non riprodotta, il poeta
scriverà, alludendo al treno: che non
s'allontana e che va, e si tratta di un ossimoro, che alimenta ancor più il
senso di mistero).
b.
Pascoli è maestro di fonosimbolismo: sa cioè ricreare con le parole il rumore
che vuole evocare. Per rendersene conto basta contare quante volte, nella
seconda strofa, si presentano i suoni re,
ro, ra (che richiamano il gracidio delle rane).
c.
Tutti gli animali e le piante sono denominati con precisione (canapine, moro...). Questa esattezza,
accompagnata al clima di mistero, accresce il senso di irrealtà, trasportando
il lettore in un'atmosfera di fiaba triste la cui conclusione è ignota, come il
significato dell'esistenza.
d. I
versi sono isosillabici e seguono uno schema preciso, ma assai complesso e non
lineare. Rispetto a X Agosto, questo
testo pascoliano ha una struttura meno regolare, che si muove nella direzione
di un verso più libero.