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6.L'ERMETISMO

 

CHE COS'E' L'ERMETISMO?

Il termine Ermetismo è stato introdotto (con riferimento alla difficoltà di interpretazione dovuta alla polisemia dei testi, spesso aperti a molte interpretazioni) da un critico letterario, Francesco Flora, in riferimento alla poesia di alcuni scrittori italiani che, nella prima metà del Novecento, presentava caratteristiche comuni (i più importanti fra essi sono Ungaretti, Montale e Quasimodo: gli ultimi due hanno ottenuto il premio Nobel per la letteratura).

Le principali fra queste caratteristiche simili erano le seguenti:

a. Un modo di scrivere che si collocava nell'ambito del Decadentismo e del Simbolismo, ma che vi occupava un posto originale, non condividendo il pensiero dei poeti maledetti e staccandosi anche dalle sovrabbondanze di termini tipiche di molta produzione dannunziana e dal fanciullismo pascoliano.

b. Il tentativo di creare “poesia pura”, con un uso molto limitato e essenziale di parole. A questo proposito, Ungaretti ha scritto:

Quando io trovo

in questo mio silenzio

una parola

scavata è nella mia vita

come un abisso.

La poesia veniva così ricondotta alla funzione originaria di evocazione e creazione del linguaggio, collocandola in un'area fuori dal tempo, dalla storia e dai legami logici.

A dimostrazione del fatto che questi poeti sono riusciti nel loro scopo di reinventare il linguaggio, basta un esempio evidente: espressioni del genere di Ed è goal, oppure E' subito polemica, o ancora E' allarme, di cui si fa quotidianamente uso nei titoli dei giornali, non esistevano prima che venisse inventata una simile costruzione nella lirica Ed è subito sera di Salvatore Quasimodo.

c. Le prime raccolte di questi poeti fanno già uso del verso libero, dunque si collocano in una prospettiva completamente nuova nel creare il ritmo e la musicalità del testo poetico.

La città in cui fiorì la poesia ermetica è la Firenze degli anni Trenta: la rivista letteraria che ne accolse molti testi è Il Frontespizio (la quale aveva una diffusione insignificante se paragonata a quella delle pubblicazioni letterarie ufficiali, di ispirazione dannunziana).

Ciò premesso, va detto che ognuno dei “tre grandi” dell'Ermetismo possiede una propria spiccata individualità umana e letteraria, tanto è vero che la loro evoluzione ha seguito percorsi molto diversi, che esamineremo separatamente.

 

GIUSEPPE UNGARETTI

 

LA VITA, LE OPERE, L’EVOLUZIONE

Giuseppe Ungaretti è nato nel 1888 ad Alessandria d'Egitto, da genitori di origine lucchese. Quando ancora egli aveva due anni, suo padre morì per un incidente sul lavoro. All'Africa araba egli restò profondamente legato sul piano affettivo e nei ricordi.

Ventiquattrenne, partì per Parigi, dove fece amicizie negli ambienti letterari, in cui operavano alcuni fra i poeti d'avanguardia del tempo, e conobbe Marinetti: iniziò così a scrivere collaborando coi futuristi. Scoppiata la guerra, Ungaretti, interventista come la maggioranza dei giovani, si arruolò come volontario: su bordi di giornale, in trincea, scrisse i versi della prima raccolta, Porto sepolto, pubblicata nel '16 in soli ottanta esemplari da un ufficiale amico del poeta. Essa sarebbe poi confluita nel libro Allegria di naufragi.

Terminato il conflitto, si sposò a Parigi: con la moglie francese abitò poi in Italia, svolgendo attività redazionali. Negli anni Trenta pubblicò Sentimento del tempo, la più “ermetica” fra le sue raccolte, all'interno della quale è già testimoniato il riavvicinamento alla fede cristiana.

Trasferitosi come professore a San Paolo del Brasile, venne colpito da un gravissimo lutto: la perdita del figlio Antonetto, dovuta a un'appendicite mal curata. Da questa tremenda perdita e dalla successiva esperienza della seconda guerra mondiale sarebbe nata la raccolta Il dolore, nella quale Ungaretti abbandona il verso libero e torna a usare l'endecasillabo.

Nel '42, in piena guerra, tornato in Italia, ottenne una cattedra all'Università di Roma. Nell'immediato dopoguerra, ormai riconosciuto e ammirato, Ungaretti viaggiò molto, e scrisse le sue ultime raccolte di poesie, fra cui La Terra Promessa, di profonda ispirazione religiosa, e Il Taccuino del Vecchio. Nel 1958 perse la moglie Jeanne; egli morì nel 1970, all'età di ottantadue anni. La sua intera produzione poetica venne raccolta in un unico volume, sotto il significativo titolo Vita di un uomo.

 

I TESTI

Pur essendo considerato un “ermetico” per molte caratteristiche delle sue prime raccolte, Ungaretti non è facilmente collocabile nell'ambito di una corrente: con il gruppo degli scrittori di Firenze, inoltre, i suoi contatti furono molto scarsi.

Può ben esemplificare lo stile ungarettiano una delle liriche più brevi e più intense che mai siano state scritte, risalente al 1916 e poi confluita nella raccolta Allegria di naufragi. Essa era stata originariamente stesa col titolo Cielo e mare (poi modificato in Mattina). Eccola:

 

Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917

 

M'illumino

d'immenso

 

La data e il luogo, presenti in tutte le liriche di Ungaretti scritte durante la guerra, ne sottolineano la caratteristica quasi di diario di un'anima. Il testo ha una duplice chiave di lettura: l'immensità che illumina può essere il paesaggio (il cielo e il mare), ma può essere anche una luce interiore (è perciò significativo il cambiamento del titolo in Mattina, che consente questa doppia, polisemica interpretazione). La lirica non fa nessuna concessione a elementi ritmico-musicali, salvo l'intreccio dolce di consonanti liquide (m,n,l). Alla parola è richiesto il massimo di intensità evocativa: il raffronto tematico è con L'infinito di Leopardi, il cui contenuto è espresso però in una chiave completamente nuova. Con questo modo intenso di fare poesia Ungaretti avrebbe fatto scuola, e non solo nella letteratura italiana.

Preghiera (tratta dalla medesima raccolta) è invece una delle prima manifestazioni della poesia religiosa ungarettiana. Eccone il testo:

Quando mi desterò

dal barbaglio della promiscuità

in una limpida e attonita sfera

Quando il mio peso mi sarà leggero

Il naufragio concedimi Signore

di quel limpido giorno al primo grido

La lirica potrebbe essere così costruita e parafrasata: Quando mi desterò dall'abbaglio della vista (barbaglio) causato dallo mescolanza (promiscuità) (e mi ritroverò) in una sfera limpida, stupito; quando il mio peso diventerà leggero; o Signore di quel limpido giorno, concedimi di naufragare (in Te) al primo grido (quasi con un vagito da seconda nascita).

Siamo qui di fronte all'Ungaretti più ermetico: la costruzione e l'interpretazione suggerite sono solo una delle possibili costruzioni e interpretazioni. Si intuisce che il testo parla di una rinascita nella luce del mistero di Dio (la parola limpido è ripetuta due volte), ma essa potrebbe venir collocata oltre la morte o in questa vita. Attonita è da intendersi come ipallage (l'aggettivo, riferito al poeta, viene spostato sulla sfera). La mescolanza cui il testo allude potrebbe riferirisi (ma è solo un'ipotesi) alla condizione di chi è legato al mondo terreno e perciò fatica a vedere Dio. La poesia è composta da versi liberi, ma presenta ben quattro endecasillabi. Eredità futurista, che rende più essenziale il testo, è l'assenza della punteggiatura. E' ancora evidente, nel naufragio nell'infinito e nell'eterno, il legame con Leopardi, poeta molto caro a Ungaretti.

 

EUGENIO MONTALE

 

LA VITA, LE OPERE, L’EVOLUZIONE

Nato a Genova nel 1896 da una famiglia del ceto medio, ultimo di sei figli, Eugenio Montale frequentò un Istituto Tecnico e conseguì, con risultati non brillanti, il diploma. Dopo aver lavorato nell'ufficio del padre e aver partecipato alla prima guerra mondiale, studiò da autodidatta, conobbe poeti soprattutto liguri e pubblicò, attorno ai trent'anni, la prima e probabilmente più importante raccolta, Ossi di seppia. Nel frattempo, si teneva in contatto con gli intellettuali antifascisti.

Trasferitosi a Firenze, capitale della poesia ermetica, a trentacinque anni ottenne un prestigioso incarico culturale ma pochi anni dopo dovette dimettersi perché privo della tessera fascista. Pubblicò, intanto, la seconda raccolta poetica (Le occasioni) e, dopo il fallimento di alcune relazioni sentimentali, ne iniziò una, decisiva, con Drusilla Tanzi (soprannominata “Mosca” per le spesse lenti dei suoi occhiali), che avrebbe sposato solo quando, nel 1962, ella rimase vedova. Durante la seconda guerra mondiale aiutò amici scrittori perseguitati dalle leggi razziali, come Umberto Saba; terminata la guerra, cinquantenne, iniziò a Milano la collaborazione con il Corriere della Sera e pubblicò successivamente la raccolta La bufera e altro.

Consacrato dal successo letterario, il poeta attraversò un periodo felice che sembrava permettergli di superare il suo radicato pessimismo; ma nel '63, un anno dopo il loro matrimonio, gli moriva “Mosca”, lasciandolo solo e profondamente amareggiato verso l'esistenza, nonostante la nomina a senatore a vita e il conferimento del premio Nobel. Questa amarezza si riflette, in tono quasi sarcastico, nelle sue ultime raccolte (Xenia, Satura e i Diari in versi) in cui, abbandonato il linguaggio poetico e ogni struttura ritmica, Montale si esprime con pessimistica ironia, usando un lessico non letterario ma termini del parlato quotidiano. Lo scrittore morì ottantacinquenne nel 1981 a Milano e i suoi funerali furono celebrati in Duomo, alla presenza delle massime autorità dello Stato.

 

I TESTI

Nell'ambito dell'Ermetismo, Montale si colloca nella categoria dei poeti-filosofi (come Leopardi, autore al quale per alcuni aspetti è molto vicino) i quali inseriscono nei loro versi riflessioni che riguardano i temi fondamentali dell'esistenza. Ne è un esempio la lirica Non chiederci la parola, pubblicata nella raccolta Ossi di seppia, che da molti è stata considerata una delle più tipiche espressioni del pensiero del Decadentismo nella sua evoluzione novecentesca. Eccola:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato

l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco

lo dichiari e risplenda come un croco

perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,

agli altri ed a se stesso amico,

e l'ombra sua non cura che la canicola

stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,

sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Parafrasi. Lettore, non chiedere (a noi poeti di scrivere) parole che mettano chiaramente in luce il nostro animo, che è informe, né parole che a lettere di fuoco lo illuminino e lo facciano risplendere come un fiore giallo di zafferano (croco) perduto in mezzo a un prato polveroso. Ah, (noi non siamo come) l'uomo che cammina sicuro, in pace con gli altri e con se stesso, e non si preoccupa della sua ombra stampata dal sole (canicola) sopra un muro scalcinato! Non domandarci parole che ti facciano conoscere il senso della realtà (mondi), ma solo qualche sillaba storta e secca come un ramo. Oggi possiamo dirti solo questo: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. 

L'autore si rivolge al lettore per manifestare l'impossibilità, per i poeti contemporanei, di mettere in luce l'animo, i pensieri, i sentimenti (in questa prima quartina è sottintesa, attraverso una metafora, la differenza fra il poeta del Novecento e quelli dei secoli precedenti). Nella seconda quartina, Montale esprime rimpianto per l'uomo di altri tempi, che aveva fiducia in se stesso e negli altri (il concetto è espresso attraverso un'altra metafora: l'uomo d'oggi, sembra dire l'autore, vede solo ciò che è oscuro, la propria ombra). Anche l'ultima quartina verte intorno a una metafora: i versi del poeta contemporaneo non danno risposte alle grandi domande dell'uomo: sono parole stentate, paragonabili a un ramo storto e secco. Ciò che il poeta può dire è solo ciò che non siamo e che non vogliamo: ed è questa una delle più lucide espressioni di quel pensiero negativo che ha caratterizzato il XX secolo.

Sul piano metrico e ritmico, i versi di Montale sono stati definiti polimetri (cioè mescolanze di vari tipi di verso isosillabico). Fra eleganti e perfetti endecasillabi (per esempio, il terzo verso o l'ultimo) e versi isosillabici di altro genere, spesso il poeta introduce volutamente versi zoppi (generalmente, endecasillabi mancanti o sovrabbondanti di qualche sillaba) per dare, anche musicalmente, l'idea di un'armonia ormai perduta. In Corno inglese, splendida lirica della prima raccolta di Montale, dopo aver dipinto con incisive metafore il concerto della natura, egli paragona infatti il proprio cuore a uno scordato strumento (cioè che non fa musica perché è senza corde, o, anche, perché è stato dimenticato).

Ecco ora un esempio di testo dell'ultimo Montale, nel quale la disperazione emerge senza più schermi letterari: il linguaggio è quotidiano o giornalistico (entrano in agitazione / secondo i loro obblighi corporativi vuole dire: si sentono obbligati a scioperare), i versi rinunciano a qualsiasi figura retorica, metafora e musicalità (salvo la prosaica rima conclusiva me - ahimé). Il tono prevalente è malinconico o ironico (aperto è il sarcasmo verso chi  ha due famiglie, non accontentandosi della propria); il titolo è, significativamente, Solitudine.

Se mi allontano due giorni

i piccioni che beccano

sul davanzale

entrano in agitazione

secondo i loro obblighi corporativi.

Al mio ritorno l'ordine si rifà

con supplemento di briciole

e disappunto del merlo che fa la spola

fra il venerato dirimpettaio e me.

A così poco è ridotta la mia famiglia.

E c'è chi n'ha una o due, che spreco, ahimé.

 

 

SALVATORE QUASIMODO

 

LA VITA, LE OPERE, L’EVOLUZIONE

Nato a Modica, in provincia di Ragusa, nel 1901, Salvatore Quasimodo trascorse l'infanzia a Messina, dove il padre esercitò la professione di capostazione delle ferrovie. Mentre frequentava l'Istituto tecnico, strinse importanti amicizie intellettuali (da ricordare il cattolico Giorgio La Pira, futuro sindaco di Firenze nel secondo dopoguerra) e a sedici anni fondò una rivista letteraria. Terminate le scuole superiori, si iscrisse al Politecnico a Roma: ma le precarie condizioni economiche lo costrinsero ad abbandonare gli studi e a trovare lavori saltuari, come commesso e impiegato. A ventotto anni si recò a Firenze dove entrò in contatto con Montale e altri importanti scrittori: nominato poi geometra dal Ministero di Lavori Pubblici a Reggio Calabria, pubblicò, per la rivista fiorentina Solaria, la sua prima raccolta, Acque e terre, apprezzata in una recensione da Montale. In questa raccolta sono evidenti le tracce della poesia dei maestri del Decadentismo e il gusto “ermetico”: Quasimodo vi aggiunge una tematica che sarebbe stata costantemente presente nella sua lirica: la nostalgia per la Sicilia, l'isola che egli dovette abbandonare per emigrare trasferendosi in luoghi che egli sempre visse come terre d'esilio.

Dal 1935, il poeta si traferì a Milano, dove poté dedicarsi ad attività di insegnamento, letterarie ed editoriali e creare una famiglia. Pubblicò, nel frattempo, ulteriori raccolte e una celebre traduzione di testi dei grandi poeti lirici dell'antica Grecia. Nel 1942 diede alle stampe la raccolta Ed è subito sera, considerata il suo capolavoro: nel frattempo, il poeta era bersaglio degli attacchi della cultura ufficiale del regime, a causa delle sue idee politiche che si sviluppavano sempre più rapidamente in senso antifascista.

In Giorno dopo giorno e nelle altre raccolte successive alla seconda guerra mondiale, l'evoluzione di Quasimodo appare compiuta: egli ormai teorizzava e praticava un ruolo civile del poeta, che a suo avviso doveva prendeva posizione sulle vicende storiche e sui problemi politici e sociali. Il contenuto di molti testi di questa fase contrappone il modello  di Gesù alla violenza umana e al tempo stesso denuncia l'ingiustizia e invita a battersi per una società migliore. Il successo del poeta fu sancito dall'assegnazione del premio Nobel per la letteratura. Morì sessantasettenne, ad Amalfi, nel 1968.

 

I TESTI

Qui presentiamo un esempio della tematica e dello stile dei della prima raccolta di Quasimodo, Acque e terre. Il titolo della lirica è Antico inverno.

Desiderio delle tue mani chiare

nella penombra della fiamma:

sapevano di rovere e di rose;

di morte. Antico inverno.

Cercavano il miglio gli uccelli

ed erano subito di neve;

così le parole.

Un po' di sole, una raggiera d'angelo,

e poi la nebbia; e gli alberi,

e noi fatti d'aria al mattino.

A dimostrazione della straordinaria capacità del poeta di creare un testo polisemico, cioè aperto a diverse possibili interpretazioni, ne forniremo tre, tutte accettabili (e non sono le sole possibili) per farti comprendere cosa si intenda per poesia ermetica e per polisemia interpretativa.

a. Supponiamo che la persona cui il poeta si rivolge sia uno dei suoi genitori. La parafrasi potrebbe essere la seguente:

Mi prende il desiderio delle tue mani chiare (o illuminate) nella penombra della fiamma: odoravano di legno di quercia, di rose, di cose morte. Era un inverno lontano. Gli uccelli cercavano il miglio e la neve sembrava gelarli e coprirli: così anche le nostre parole (subito si spegnevano). (Ricordo) un po' di sole, simile a una raggiera d'angelo, poi la nebbia, e gli alberi, e noi fatti d'aria al mattino.

b. Il testo, con la medesima parafrasi, potrebbe però riferirsi anche a una donna amata. Rileggi i versi sulla base di questa interpretazione e potrai renderti conto che l'interpretazione è accettabile.

c. Se assumiamo invece come parola-chiave dell'interpretazione il termine morte, prendendolo alla lettera, il senso del testo viene completamente rovesciato. La lirica potrebbe allora riferirsi al ricordo della morte di una persona cara e la parafrasi potrebbe diventare la seguente:

Mi prende il desiderio delle tue mani chiare nella penombra della fiamma: quando le ho viste per l'ultima volta odoravano di legno di quercia, di rose, di morte. Era un inverno lontano. Gli uccelli cercavano il miglio e la neve sembrava gelarli e coprirli: così anche le parole (di chi ti stava accanto per l’ultima volta, che si spegnevano nel silenzio). (Ricordo) un po' di sole, simile a una raggiera d'angelo, poi la nebbia, e gli alberi, e noi inconsistenti come l'aria al mattino (perché la nostra vita è breve).

La metafora conclusiva, e noi fatti d'aria al mattino, potrebbe essere interpretata in senso negativo (inconsistenti) o positivo (leggeri, interiormente limpidi). Questo modo di scrivere versi rappresenta il gusto ermetico nella sua forma più tipica.

Diverso è lo stile delle raccolte di Quasimodo successive alla seconda guerra mondiale. Lo dimostra nel modo più tipico il testo Laude, che già nel titolo richiama le sacre rappresentazioni medioevali in cui viene data la parola a Gesù sofferente e a sua madre.

Il testo è datato 29 aprile 1945 e si riferisce a un fatto storico: dopo la fucilazione di Mussolini e dei capi del Fascismo i loro cadaveri vennero esposti a piazzale Loreto a Milano e furono oggetto di derisione e oltraggio da parte della folla.

Il dialogo in versi è iniziato dal figlio, che si rivolge alla madre:

E perché, madre, sputi su un cadavere

a testa in giù, legato per i piedi

alla trave? (...)

Nei successivi versi, dopo avere espresso il proprio orrore per quella scena da mattatoio, il figlio rimprovera la madre che si è unita alla folla.

Dalla risposta della madre comprendiamo che il figlio è un antifascista morto torturato:

(...) T'hanno scavato gli occhi, rotto

le mani per un nome da tradire. (...)

La madre, per giustificare quanto sta accadendo, ricorda poi al figlio:

Sempre abbiamo sputato sui cadaveri,

figlio: appesi alle grate di finestre,

ad albero di nave, inceneriti

per la Croce, sbranati dai mastini

per un po' d'erba al limite dei feudi.(...)

E' la legge dell'occhio per occhio, dente per dente che continua a travolgere l'uomo, duemila anni dopo il Cristo, dice la madre: solo i morti sanno veramente perdonare.

La Laude si chiude con le parole del figlio:

Quest'afa ripugnante, questo fumo

di macerie, le grasse mosche verdi

a grappoli agli uncini: l'ira e il sangue

colano giustamente. Non per te

e non per me, madre: occhi e mani ancora

mi bucheranno domani. Da secoli

la pietà è l'urlo dell'assassinato.

In questo drammatico testo, Quasimodo distingue la giustizia umana (praticata con violenza, e che perciò suscita altro odio e altra violenza) dalla pietà cristiana, che esiste solo come urlo dell'assassinato, qualunque sia il credo o il campo cui la vittima appartiene. Questa tematica è sviluppata in modo ancora più profondo e lucido sul piano filosofico nella lirica Uomo del mio tempo.